Recensione Thor (2011)

Al di là della versatilità dimostrata dal regista di Enrico V e Hamlet, le potenzialità shakespeariane del soggetto sono state ben messe in evidenza nello script del film, messo a punto, nella sua versione iniziale, da quel J. Michael Straczynski che, oltre che apprezzato sceneggiatore del fumetto, è anche responsabile dello script del premiato Changeling di Clint Eastwood.

Caduta e rinascita di un dio

C'era un'attesa particolare, forse più carica di tensione rispetto ad altre trasposizioni fumettistiche, per questo Thor in versione cinematografica. Il motivo di ciò risiede non solo nella peculiarità del fumetto targato Stan Lee e Jack Kirby, che mescolava (caso unico all'interno dell'universo Marvel) supereroi e mitologia, l'universo popolare dei fumetti e quello alto delle leggende nordiche, opportunamente rielaborate per i lettori del tempo. Il fatto che il dio del tuono in versione cartacea non fosse mai stato, finora, trasposto al cinema, dice molto su un timore nel portare sullo schermo un universo complesso, in cui il fantasy puro si mescola con le dinamiche più propriamente supereroistiche, e in cui le peculiarità del regno di Asgard e degli esseri che lo abitano delineano una vera e propria mitologia, dalle potenzialità narrative sulla carta sconfinate. Soggetto cinematografico per eccellenza, quindi, ma al contempo fonte di comprensibili timori, non deve stupire più di tanto che questo film sia stato affidato a un regista teoricamente lontano dall'universo fumettistico come Kenneth Branagh. Al di là della versatilità dimostrata, nel corso della sua carriera, dal regista di Enrico V e Hamlet (ma anche di thriller come L'altro delitto, tanto per fare un titolo) le potenzialità shakespeariane del soggetto sono state ben messe in evidenza nello script del film, messo a punto, nella sua versione iniziale, da quel J. Michael Straczynski che, oltre che apprezzato sceneggiatore del fumetto, è anche responsabile dello script del premiato Changeling di Clint Eastwood.


La sceneggiatura del film si distanzia in modo significativo dalla versione fumettistica originale, concentrandosi sulle dinamiche interne del regno di Asgard: il re Odino ha due figli, Thor e Loki, l'uno impetuoso, irascibile e presuntuoso, l'altro più riflessivo ma sofferente da sempre di un complesso di inferiorità nei confronti del fratello. Quando la fragile pace con il vicino regno di Jotunheim, governato dall'infido Laufey, viene compromessa dal comportamento avventato e irresponsabile di Thor, Odino decide che è giunto il momento di punire il figlio, esiliandolo sulla Terra e privandolo di tutti i suoi poteri, compresa la capacità di usare il suo possente martello. Qui, il dio esiliato conosce la ricercatrice Jane Foster, il professor Andrews e l'assistente Darcy, che stanno indagando su una serie di fenomeni celestiali verificatisi nel deserto del New Mexico; spaesato e privato della sua arma, a sua volta precipitata nel deserto e subito fatta attenzione dei militari, Thor viene da tutti considerato pazzo, con l'eccezione di Jane che gradualmente inizia a dar sempre maggior credito alla sua storia. Ma intanto, il regno di Asgard è in grave pericolo, visto che Odino è ormai malato e impossibilitato a regnare, mentre Loki, a lui subentrato, sta compiendo scelte dissennate dettate dalla brama di potere: Thor dovrà così trasformare se stesso per recuperare la sua natura divina e salvare suo padre e la sua patria.

Com'è evidente dalla trama, gli sceneggiatori hanno deliberatamente scelto di tralasciare alcune componenti fondamentali del fumetto, tra cui il dualismo umano/divino del personaggio originale, che nella sua versione umana aveva il volto del mite dottor Donald Blake. Il fatto che questo Thor, durante il suo esilio, resti cosciente della sua natura divina, e anzi continui a rivendicarla con arroganza, toglie un po' al fascino della sua evoluzione e della (ri)scoperta delle sue potenzialità, parallelamente con quella delle sue responsabilità; dall'altro lato, tuttavia, la visione di un dio finito nel nostro mondo che continua a proclamarsi un essere divino e ad agire come se si trovasse nel suo regno (dando vita anche ad alcuni esilaranti momenti, come quello in cui Thor entra in un'agenzia di noleggio auto e chiede un cavallo) aggiunge senz'altro un elemento ironico e di auto-smitizzazione del personaggio che rappresenta un'evidente scelta narrativa. L'intento dichiarato degli autori dello script (e dello stesso Branagh) è quello di dare maggior peso alle dinamiche interne del regno di Asgard, e specie a quelle della famiglia reale, in cui il conflittuale rapporto tra i due fratelli, la brama di potere e il desiderio di rivalsa di Loki, la seduzione del dominio e la messa in pericolo di un intero equilibrio statuale, godono in effetti di una rappresentazione a tinte forti, terreno ideale per la formazione shakespeariana del regista. La stessa rappresentazione visiva e scenografica di Asgard è fastosa e potente, astratta e d'impatto, figlia di certi esempi di fantasy cinematografico anni '70 e '80 richiamati anche dalla bella colonna sonora di Patrick Doyle.
Il film, al di là di una certa inevitabile sofferenza mostrata da Branagh nel doversi piegare a una logica da blockbuster, e quindi a una preponderanza di rumorose e a volte invadenti sequenze d'azione, mostra qualche limite nella descrizione delle dinamiche dei rapporti "terrestri" di Thor, specie quello con la ricercatrice Jane, interpretata da Natalie Portman. La storia che ne nasce, su cui la sceneggiatura avrebbe in effetti potuto puntare maggiormente, è accennata e poco incisiva, forse in attesa di essere sviluppata (così come tante altre componenti della storia) in un probabile sequel. L'evidente carattere di "first episode" che permea un po' tutto il film influisce anche sulla descrizione (un po' bidimensionale) di alcuni personaggi asgardiani, come i compagni di battaglia del protagonista durante la sua spedizione iniziale, tra cui spiccano il guerriero Volstagg e la bella Sif, amici fraterni di Thor. Meglio rappresentato e caratterizzato, ma anch'esso un po' sacrificato dallo script, l'Odino di Anthony Hopkins, con l'attore gallese che comunque continua ad adattarsi con classe e personalità alle tipologie più disparate di ruoli. Raggiungono inoltre risultati, complessivamente, soddisfacenti tanto il Chris Hemsworth che dà vita al protagonista, fisicamente possente quanto spaccone e ironico nei momenti giusti, quanto l'ambiguo Tom Hiddleston che interpreta il fratello Loki, personaggio più che mai destinato a fare da trait d'union per questo nuovo, probabilissimo franchise.
Sulla scelta del 3D, tecnologia che nel corso dell'ultimo anno ha mostrato segni di un evidente calo di interesse del pubblico, va detto che, in questo caso, la sua necessità sembra più che mai relativa. A dispetto delle parole di Branagh, che ha tenuto a specificare più volte, nelle interviste, di aver usato la terza dimensione in funzione strettamente narrativa, né la rappresentazione di Asgard né tantomeno quella del deserto del New Mexico sembrano acquistare molto dall'uso della tecnologia stereoscopica. Lontano comunque dall'uso posticcio e dissennato che ne era stato fatto in esempi di fantasy come il recente Scontro tra titani 3D, il 3D qui presente appare come un elemento accessorio, scelto più per una concessione a una moda che sembra già aver esaurito (ma siamo pronti ad essere smentiti) la sua spinta propulsiva, che per reali necessità narrative. La lezione di James Cameron e del suo Avatar sembra essere stata recepita da pochissimi, e isolati, epigoni. Ma, in questo come in altri casi (la storia del cinema e delle sue innovazioni, in questo senso, insegna) la prudenza è più che mai d'obbligo, e i prossimi anni saranno certo rivelatori per il futuro di una tecnologia tanto rivoluzionaria sulla carta quanto, finora, mal sfruttata e poco compresa nelle sue reali potenzialità.

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3.0/5