Asghar Farhadi presenta il suo dramma Una separazione

Un interessante incontro con il regista iraniano, che si prepara a uscire nelle sale italiane col suo ultimo, bellissimo film, già vincitore dell'Orso d'Oro a Berlino.

E' un film raro e prezioso, Una separazione. Un'opera che con la sua messa in scena scarna e minimale riesce a coinvolgere lo spettatore in un impatto emotivo devastante, con una storia che dal privato di due famiglie si fa narrazione collettiva di una società e delle sue contraddizioni. Non un film urlato, come ha tenuto a specificare lo stesso regista Asghar Farhadi, non una pellicola di propaganda anti-regime: ma senz'altro un film, anche, politico, nel senso più alto del termine, che ha tra i suoi temi il rapporto dei cittadini con istituzioni ancora (troppo) opprimenti, in grado di mettere uomini e donne che vivono e soffrono gli uni contro gli altri. Impossibile individuare buoni o cattivi, tra i personaggi del film di Farhadi, impossibile non comprendere, ed empatizzare, con le ragioni di tutti.
Di questa sua ultima opera (che, lo ricordiamo, ha già ottenuto l'Orso d'Oro all'ultimo Festival di Berlino) il regista di About Elly ci ha parlato in un interessante incontro, durante il quale ha spaziato anche sul suo approccio alla scrittura e alla regia cinematografica, e su una società complessa, meno scontata nelle sue peculiarità di quanto possa apparire ad occhi occidentali, come quella iraniana.

Il film ha già ottenuto vari riconoscimenti internazionali, tra cui l'Orso d'Oro a Berlino, e potrebbe concorrere ai prossimi Oscar per il miglior film straniero. Che effetto le fanno questi riconoscimenti?
Asghar Farhadi: I premi sono utili per il film ma non per il cineasta: la sera puoi emozionarti per un premio ricevuto, ma il giorno dopo devi mettere quest'emozione da parte, dimenticartela. Il rischio, altrimenti, è che il regista entri in conflitto con sé stesso, che giri un film tenendo sempre a mente il precedente, e cercando di replicarne i risultati.

Ci sono elementi autobiografici, nella storia?
C'è innanzitutto il tema dell'Alzheimer, malattia da cui era affetto mio nonno, una persona a cui ero molto legato: è un male che purtroppo anche in Iran sta crescendo molto. Devo dire, poi, che ci sono delle similitudini tra il rapporto del protagonista con sua figlia e quello che ho io con mio figlio, anche se ovviamente le due cose non sono uguali. Più in generale, non saprei dire di preciso quali elementi del film facciano parte della mia vita e quali no, è difficile definirlo con precisione.

Avete iniziato a girare il film poco dopo le elezioni del 2009, ma nel 2010, poi, vi hanno tolto i permessi per girare. Può raccontarci come sono andate le cose?
E' stata la grande partecipazione affettiva di pubblico e critica a salvare il film. La lavorazione è stata fermata, per un periodo, prima che il film fosse finito, prima ancora che qualcuno avesse potuto vederlo: dopo, una volta uscito nelle sale, non è stato più possibile toglierlo di mezzo. Non è un film di propaganda e non è un film urlato: le cose le dice, ma sottovoce.

Qual è la situazione attuale, in Iran, per quanto riguarda la censura?
Dipende dai film, ne escono molti e dei più svariati generi. Comunque, di 100 film che escono in un anno, 80 non hanno problemi con la censura: quelli che incontrano più difficoltà sono i film impegnati, dai temi più seri, però è da sottolineare che un film che ha problemi con la censura non è necessariamente un bel film. Anche il mio film fa parte di quelli che hanno avuto problemi, ma per principio evito di parlarne e di difenderlo prima che il pubblico lo abbia visto: non mi piace fare del vittimismo.

C'è una differenza, in Iran, tra la legge giudiziaria e la legge coranica?

Non c'è un confine netto tra le due cose: le leggi di stato, nel nostro paese, attingono a precetti religiosi.

Lei vive in Iran e gira film nel suo paese. E' una scelta molto precisa. Ha mai pensato di emigrare, di lavorare all'estero?
Finché mi è possibile, voglio continuare a girare film iraniani che vengano visti dagli spettatori iraniani. Se emigrassi, poi, quelle problematiche che mi porto dentro, e che sono quelle del mio paese, certo non sparirebbero. Ciò non toglie che potrei girare alcune parti di un film all'estero, se la storia lo prevedesse.

Il film può essere definito una tragedia. Quale sono gli elementi di questo genere che la interessano?
Forse è un discorso personale, ho un rapporto più vicino con le tragedie e le storie tristi, ma il film non è da leggersi come una tragedia classica, in cui c'è un confine netto tra il bene e il male: qui la lotta è tra i buoni e... i buoni, non si sa di preciso per chi parteggiare dei due. Chiunque abbia la meglio, nello spettatore resta sempre un senso di insoddisfazione. La tragedia moderna è basata proprio su questo.

Questo in effetti è un elemento che era presente anche nel precedente About Elly: gli stessi "buoni" non vengono mai assolti del tutto...
Io, da quando ho iniziato a fare teatro e poi successivamente al cinema, non ho mai avuto un personaggio definibile come "cattivo": penso che tutti abbiano diritto di avere una percentuale di errori nella propria vita. Se nessuno facesse mai errori, non saremmo esseri umani: quando penso al Paradiso, come a un luogo in cui tutti sono perfetti al 100%, per l'eternità, sinceramente mi spavento.

Qual è la situazione del cinema prodotto nel resto del mondo, nel suo paese?
I film stranieri non vengono proiettati in Iran, soprattutto su quelli americani c'è un divieto assoluto: per questo abbiamo poche sale, che proiettano soltanto i film di produzione locale. Tuttavia, appena un film straniero esce nel suo paese, da noi arriva subito il DVD pirata.

Sia questo film che il suo precedente affrontano temi importanti adottando una struttura da thriller. E' una sua precisa scelta narrativa, questa?
Semplicemente, in assenza di una decisione precisa sul genere, i miei film vengono traghettati in questa direzione. I miei ultimi tre film, in effetti, sono film di investigazione, ma non c'è un detective: il detective è il pubblico.

Può essere definito un film sulla solitudine?
Sì, alla fine del film i personaggi sono tutti soli, nessuno escluso. La solitudine è una caratteristica che permea la nostra società: nonostante la presenza sempre più pervasiva dei mezzi di comunicazione di massa, la gente è sempre più sola.

Nel film ci sono due caratteri femminili molto diversi, una donna fortemente condizionata dalla religione nelle sue scelte, e un'altra più indipendente, che vuole addirittura emigrare. Com'è, attualmente, la situazione della donna in Iran?
E' difficile dirlo, visto che parliamo di un paese di 70 milioni di abitanti. Ci sono le metropoli, le città più piccole e i villaggi, e ci sono anche varie tipologie di donne, da quelle più tradizionaliste a quelle più aperte alla modernità. L'immagine occidentale della donna iraniana, comunque, è completamente errata: in alcuni lavori le donne sono presenti quanto gli uomini, o addirittura di più. Per fare un esempio, ci sono più scrittrici donne, in Iran, che scrittori.

Il finale lo aveva da sempre in mente così?
Sì: è stata una delle prime scene che ho concepito. All'inizio pensavo addirittura di usare quella scena come scena iniziale, e poi di girare tutto il film in un lungo flashback: poi, però, ho preferito rispettare la consequenzialità degli eventi.

Un elemento che ritorna spesso, nel film, è la presenza costante di vetri, specchietti, finestre, come a creare un filtro tra lo spettatore e ciò che si vede sullo schermo...
Non è casuale, ed è un elemento che era già presente in About Elly. Tra la macchina da presa e lo spettatore ci sono sempre una serie di "disturbi", diversi strati di realtà sovrapposti.

Nonostante i film esteri non arrivino nel suo paese, conosce e apprezza qualche regista del cinema italiano?
I film non arrivano sul mercato ufficiale, ma questo non significa che non vengano visti. Film come quelli di Giuseppe Tornatore e Nanni Moretti sono molto popolari, da noi: tuttavia, i registi più apprezzati sono sicuramente Vittorio De Sica e Federico Fellini.