Ascanio Celestini dalla parte dei matti a Venezia

Insieme a Maya Sansa e a Giorgio Tirabassi l'autore letterario e teatrale presenta alla stampa un'opera impegnata che denuncia con delicatezza, senza pretesti politici né ambizioni sociologiche, l'inquietante realtà degli internati nei manicomi italiani.

E' dell'artista romano Ascanio Celestini il primo film italiano in concorso alla Mostra: La pecora nera, trasposizione per il grande schermo del suo romanzo, già adattato per le scene teatrali. Nel non-film, come molti giornalisti l'hanno già definito, sul disagio dei pazzi nei manicomi due bravissimi Maya Sansa e Giorgio Tirabassi, che hanno accompagnato Celestini alla presentazione veneziana. Delicata, angosciosa e fortemente evocativa, l'opera prima dell'eclettico Celestini rappresenta una discesa negli inferi del pazzo Nicola che racconta da due punti di vista, da bambino e da adulto, la sofferta realtà di chi vive in manicomio ed è costretto a perdere la propria dignità mentre l'istituzione lo tratta e lo riduce a un neonato. Con grande abilità di scrittura, in cui Celestini è stato affiancato da Wilma Labate e da Ugo Chiti, e di messa in scena, resa poetica dal contributo del direttore della fotografia Daniele Ciprì, il film d'esordio dell'autore, tenuto a battesimo dal festival, lavora sulle corde di una drammaticità toccante che non muove a un illegittimo pietismo grazie a un umorismo nero raffinato che gronda dagli intelligenti dialoghi ripresi fedelmente dal libro. Scrittore, regista e interprete, Celestini ci ha spiegato che ha lavorato alla trasposizione della sua opera per il grande schermo come un antropologo che effettua le sue ricerche su campo, indagando tra testimoni e sondando in profondità nei corridoi stretti di alcuni manicomi italiani che sono simili ai campi di concentramento.

La pecora nera è un film, ma alle sue spalle ci sono anche un libro e uno spettacolo teatrale. Come avete lavorato alla sceneggiatura?
Ugo Chiti: Innanzitutto sulla seduzione dei segni e delle grammatiche di Ascanio, che sono predominanti. Poi il tracciato della storia non era difficile perché non prevedeva un'unità di spazio né di tempo. La cosa difficile era mantenere un equilibrio rispetto all'affabulazione, che giustifica tutte le situazioni, che andavano riportate sotto il segno filmico.
Wilma Labate: Ero molto contenta di approfondire il rapporto con Ascanio perché sono sempre stata incuriosita dal personaggio-Ascanio. E' stato molto stimolante per me lavorare con lui e ho capito presto che avrebbe usato un linguaggio molto sporco e imprevedibile, così ho cercato di far venire fuori le sottotrame del film e qualcosa in più del suo personaggio.

Come nasce questo progetto?
Alessandra Acciai (produttrice): Conoscevo il suo teatro e secondo me la storia de La pecora nera, più delle altre opere, si prestava alla trasposizione cinematografica.

Paolo del Brocco (Rai Cinema): La pecora nera è stato una scommessa basata sulla grande qualità dell'autore e della distribuzione Bim, che lo porterà nelle sale dal 15 ottobre.

Signor Celestini lei crede che si possa trovare una bellezza nella pazzia?
Ascanio Celestini: No, non credo ci sia bellezza nella pazzia. Si potrebbe parlare di pazzia, come di una situazione mentale degenerata, o di follia, che ha un'accezione più poetica, ma io ho cercato di avvicinarmi a una situazione più sospesa che è quella del disagio. Nel manicomio più che una bellezza infatti c'è una sorta di consolazione materna, che toglie qualsiasi responsabilità all'individuo e lo riconsegna a una dimensione infantile, lo riduce alla condizione di un neonato.

Negli ultimi anni siamo passati da un cinema della denuncia a un cinema della rinuncia. Come nasce l'idea di realizzare un cinema sull'altrove?
Ascanio Celestini: Io credo che il mio non sia né un racconto di denuncia né di rinuncia perché ho cercato di restare lontano dagli eventi legali degli anni '70, che sono un problema delle istituzioni. Basaglia nel '69 per parlare del manicomio iniziò a parlare della scuola, delle fabbrica... perché credeva che quei problemi si ritrovavano in più ambiti. Io non volevo raccontare la parte peggiore del manicomio, ma non ritengo il manicomio un'istituzione criminale così come non ritengo il carcere un'istituzione criminale perché ad essere criminale è l'idea che qualcuno decida della sorte di un altro. Io ho cercato di raccontarne il meglio perché non c'è il peggio! Volevo dire che nel migliore dei casi siamo di fronte a un'istituzione terrificante.

Ci sono dei tagli nella passaggio dal suo libro al film?
Ascanio Celestini: Rispetto al libro ho saltato la parte centrale che parla delle leggi perché volevo mettere il manicomio a fianco ad altre istituzioni. Nel film il protagonista esce dal manicomio e va al supermercato, dove ha un approccio compulsivo al consumo: il problema è dell'individuo e ho cercato di spostarmi dalla dimensione politica a quella etica perché penso che, se c'è una speranza, quella deriva dall'individuo, non dalla società.

Altri artisti prima di lei hanno citato il manicomio come un posto bello dove c'è una ricchezza di umanità che manca all'esterno. Lei non condivide questa posizione?
Ascanio Celestini: Ho fatto una serie di ricerche e di interviste in alcuni manicomi, che non erano dei posti isolati, ma delle vere e proprie isole. Un'ex infermiera una volta mi raccontava che prendeva le vecchiette sotto braccio, guardavano insieme il tramonto e ha vissuto sensazioni mai provate fuori. Ho pensato allora che forse ci fosse bisogno di recuperare questa visione di umanità legata ai manicomi che manca all'esterno, ma ho capito che non è così: fuori viviamo una realtà complessa, mentre nel manicomio manca tutto e rimane solo il sole! La condizione dell'internato non sembra negativa perché l'istituzione è come una mamma, ma è una condizione terribile per una persona adulta. C'è una carica emotiva molto forte ma solo perché non c'è altro. L'istituzione del manicomio è come i campi di concentramento.

Signor Ciprì, ci sono state difficoltà particolate nel rendere il mondo del manicomio una dimensione poetica?
Daniele Ciprì: No, non abbiamo dovuto affrontare nessuna difficoltà. Prima del film io non conoscevo il teatro di Ascanio, ma quando mi sono interessato a lui è stata per me una sfida raccontare per immagini quello che aveva descritto a parole. Abbiamo cercato di rispettare la sua scrittura senza virtuosismi: non c'era bisogno di grandi immagini.

Come hanno vissuto quest'esperienza così particolare gli attori?
Maya Sansa: Io ho avuto un'esperienza diversa dagli altri perché sono arrivata quasi in chiusura delle riprese e quindi ho avuto un vissuto diverso anche se ho trovato un bel gruppo ad accogliermi sul set. Per il mio personaggio mi sono affidata alla scrittura di Ascanio, che l'aveva costruito in maniere molto limpida. Sono stata molto felice quando mi hanno proposto di far parte del film.

Giorgio Tirabassi: Anch'io sono entrato dopo qualche settimana, ma avevamo già fatto un incontro qualche settimana prima. E' stato un percorso inusuale, più simile al teatro che al cinema. Pensavo di proporre dei punti di riferimento, ma non c'era bisogno di orpelli perché il testo è bellissimo. Per entrare nel personaggio è stato necessario solo appoggiarsi al testo. Celestini è un autore che si è preparato così bene nel corso degli anni che era tutto già nella sua testa e doveva soltanto comunicarcelo. Non è stato semplice, ma sono entrato nel mio personaggio senza il bisogno di prepararmi.

Quindi il film ha un'impostazione non cinematografica?

Ascanio Celestini: Se è un complimento, sono d'accordo! Spesso in teatro l'attore lascia passare il personaggio, noi volevamo che ci fosse un punto di vista di un personaggio più che la sua storia. Abbiamo provato a fare un cinema evocativo piuttosto che un cinema che mette in mostra. Volevamo che lo spettatore tra il visto e l'ascoltato evocasse un altro livello. La pecora nera non è un film industriale perché ci siamo sentiti molto liberi, senza nessuna pressione, e sul set è stato come un cantiere in cui ognuno faceva quello che sapeva fare.