Andrea Segre presenta a Venezia La prima neve

Il regista ed ex documentarista ha presentato al Lido, nella sezione Orizzonti, il suo secondo lungometraggio di fiction: la storia dell'amicizia tra un bambino orfano di padre e un immigrato. Insieme agli interpreti, nell'incontro stampa, Segre ha spiegato genesi e motivi ispiratori del film.

Dopo aver esordito nel cinema di fiction, tre anni fa, con Io sono Li, Andrea Segre è approdato quest'anno alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti, con la sua opera seconda. La prima neve è la storia di un'amicizia e di una nuova paternità: quella che coinvolge Dani, nato in Togo e arrivato in Italia fuggendo dalla guerra in Libia, e il piccolo Michele, orfano di padre, che vive un rapporto difficile con lo zio Pietro, ed è impossibilitato a stabilire un vero rapporto con la madre Elisa. I quattro vivono insieme in una residenza di montagna sulla Val dei Mocheni, dove Pietro svolge il suo lavoro di falegname e apicoltore. Piuttosto che concentrarsi sulle tematiche relative all'immigrazione, il film di Segre sceglie di narrare un incontro di mondi e di solitudini complementari, sullo sfondo di una terra di confine, particolarmente adatta a rappresentare vicende che possano assumere valenze universali.
Il regista ha spiegato genesi e motivi ispiratori del film ai giornalisti intervenuti nell'incontro stampa al Lido, insieme agli attori Jean-Christophe Folly, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston e al giovanissimo Matteo Marchel; oltre che ai produttori Francesco Bonsembiante e Marco Paolini.

Segre, il film ha per protagonista un immigrato, ma la storia sembra avere valenze universali. E' così?
Andrea Segre: Il tema è l'incontro tra un padre che non riesce ad essere padre, e un figlio che non può più esserlo perché orfano di padre. Vengono da mondi molto diversi, e si incontrano nel mondo del bambino, dove imparano a conoscere la complementarietà dei loro dolori.

In effetti, Dani viene dal Togo, non uno dei paesi più disastrati dell'Africa: vive una situazione dignitosa, lontana dall'orrore dei Cie. Il non voler usare ulteriori elementi drammaturgici è stato funzionale al far incontrare due dolori universali?
Dani è un personaggio ispirato ai tanti uomini e donne africani arrivati dopo la guerra in Libia, che sono stati accolti nel Progetto Nordafrica. Il film però non approfondisce il tema dell'immigrazione: piuttosto, parte dalla situazione che ha permesso questo incontro, per indagare nel rapporto padre-figlio. Non c'è alcun elemento di tensione, nel film, tra accoglienza e non accoglienza. In questo paese, spesso accade che lo straniero entri a far parte delle nostre famiglie: spesso, infatti, si sente 'io non voglio gli stranieri, tranne quello che vive con me'. Queste, in realtà, sono tante isole felici: il problema è che bisognerebbe unirle.

Nel film c'è un'unione di presa diretta e ricostruzione della realtà. Come si è esplicitato, ciò, nel rapporto con gli attori?
Io ho cercato di portare in connessione la capacità di mettersi in scena, con ciò che ognuno ha di suo fuori dalla messa in scena. Ho voluto chieder loro di portare nella storia qualcosa del loro vissuto reale, confrontandolo con la situazione del film. Nel lavoro di messa in scena, la confusione tra ciò che sei e ciò che rappresenti è un gioco denso, che vale la pena vivere nel suo essere territorio di confine.

Folly, lei si è sentito in qualche modo rappresentante della sua gente?
Jean-Christophe Folly: Ho incontrato tre africani che hanno vissuto il viaggio dalla Libia all'Italia, mi hanno parlato della loro esperienza; ho ascoltato molto, per prepararmi a questo ruolo, e ho anche visto il documentario di Andrea Sangue verde. Io non sono nato in Africa ma in Normandia, ma conosco bene l'Africa perché la mia famiglia vive lì.

Gli interpreti possono raccontare la loro esperienza?
Anita Caprioli: Andrea ha una dote rara, che è quella di permetterti di interagire non solo su ciò che ti riguarda, ma su tutto il progetto. Questo dà un valore aggiunto al film. La mia esperienza è andata in quella direzione, quella di un lavoro che è stato non solo sul set, ma che ha coinvolto tutto ciò che rappresenta il "pre-set". Abbiamo lavorato sui personaggi ma anche sul sentire, su ciò che le scene rappresentavano e su ciò che ognuno di noi poteva apportarvi a livello emotivo. L'esperienza davvero bella, a livello umano, è stato l'incontro con Matteo: lavorare con i non attori è una possibilità in più, specie con un ragazzino di 11 anni che ha una sensibilità così raffinata. E' come se a un certo punto ci fossero delle parti istintive, che giocavano indipendentemente dalle prove o da ciò che c'era scritto nel copione.

Battiston, il suo ruolo porta il sogno e una vena di leggerezza nella storia.
Giuseppe Battiston: Sì, Andrea mi chiedeva di costruire una relazione col personaggio costruito da Matteo, ovvero di rendere questo zio il personaggio con cui lui aveva più intesa. Ciò fa parte, secondo me, di quell'elemento straordinario dei film di Andrea, la possibilità per noi attori di interagire con dei non professionisti: da un lato c'è un lungo lavoro di prove da parte sua con loro, da parte nostra la responsabilità della gestione delle singole scene. Per me, è la responsabilità di un lavoro ancora più delicato di quello che facciamo normalmente: è un lavoro in sottrazione, rispetto alle caratteristiche che in genere inserisci in un personaggio, un lavorare sulla misura. Per un attore è l'esperienza più bella che si possa fare. Poi, in realtà, mi sono trovato di fronte a un professionista a 360 gradi, perché Matteo è di una bravura imbarazzante!

Matteo Marchel, durante il provino cosa ti ha chiesto di fare Andrea?
Matteo Marchel: Provavamo le scene che poi recitavamo nel film. Io, nel film, non ho un legame fisso con mia madre, mentre invece riesco ad averlo con mio zio. Per me recitare non è proprio normale, infatti sul set studiavo e ristudiavo.

Bonsembiante, questo film nasce da un'idea produttiva che da tempo voi state portando avanti. Qui a Venezia avete anche il film Con il fiato sospeso di Costanza Quatriglio: sono progetti particolari, che lasciano molta indipendenza creativa.
Francesco Bonsembiante: Sì, da tempo seguiamo questa direzione: narrare storie reali, piccole o grandi, ma localizzate in un luogo e che parlino una lingua universale. Questo tipo di storie, nel nostro territorio, fioriscono con una certa facilità: un po' per l'eterogeneità dei luoghi, col mare a un'ora di distanza dalle montagne, un po' perché è una zona di confine, che vede Veneto, Friuli e Trentino equidistanti dai paesi a nord dell'Italia e dal centro. Il film è ambientato in una valle chiusa, che non ha turismo di passaggio: vi è rimasta un'identità molto profonda, radicata. Abbiamo quindi voluto definire precisamente questo posto: proprio perché non credo ci siano tanti posti in Italia dove i tedeschi sono immigrati, si sono fermati e hanno stabilito delle comunità che parlano un dialetto bavarese. L'atipicità del luogo è un topos perfetto, che dovrebbe parlare a tutto il mondo.