Recensione Wu xia (2011)

Nonostante uno script un po' debole, il film di Peter Chan si lascia apprezzare per le interpretazioni oltre che per la fotografia di buon livello e le impressionanti scene d'azione.

A History of Violence alla hongkonghese

Presentato fuori concorso al 64. Festival di Cannes, questo Wu Xia (ma negli USA sarà, inspiegabilmente, distribuito con il titolo di Dragon) di Peter Chan è un wuxiapian dalla partenza piuttosto atipica: il protagonista Liu Jinxi è infatti un uomo che dopo un misterioso passato ha deciso di stabilirsi, dopo aver trovato moglie, in un tranquillo villaggio rurale della Cina del 1917. Quando però il negozio del villaggio viene preso di mira da due fuorilegge, Liu non può fare altro che intervenire e, dopo un combattimento piuttosto rocambolesco, riesce fortunosamente ad avere la meglio ed uscirne illeso. Ma le cose saranno andate davvero così? E' di tutt'altra opinione l'investigatore Xu Baiji che non crede possibile che un sempliciotto come Liu Jinxi possa essere sopravvissuto ad un combattimento del genere, a meno che non sia egli stesso un esperto di arti marziali ed un ex pericoloso criminale.

Il buffo investigatore interpretato da Takeshi Kaneshiro utilizza tecniche molto innovative nel ricostruire la scena del delitto, e le scelte visive del regista - che addirittura ricordarno lo stile moderno e televisvo di un CSI - strappano più di una risata soprattutto in contrapposizione all'apparente innocenza e ingenuità di questo "eroe per caso". Ma man mano che la verità viene a galla e un doloroso e sanguinoso passato emerge, questo ironico mistery assume toni sempre più drammatici, il personaggio di Liu Jinxi cresce di intensità e la performance di Donnie Yen (che coreografa anche tutte le impressionanti scene d'azione, ma non per questo si limita a recitare con il solo corpo) finisce con l'oscurare il lavoro del collega e a portare il film su binari più vicini al genere che il titolo del film evidentemente richiama.

Più il film va avanti, e più la commistione di generi e stili è evidente, così come gli omaggi (tutta la spettacolare sequenza finale non può che far venire in mente The One Armed Swordsman, di cui tra l'altro inzialmente questo film doveva essere un semplice remake), e il regista colpisce per la capacità in cui riesce a gestire questi improvvisi cambi di tono (e stile) senza per questo turbare lo spettatore. Anche la fotografia è di buon livello anche se molto lontana da fasti spesso raggiunti da altri classici del genere, mentre il punto più debole rimane forse la sceneggiatura che parte da un plot poco originale e cerca di rifarsi inserendo situazioni spesso poco chiare o non esattamente giustificate, e soprattutto, nella seconda metà, si concentra troppo sul personaggio principale dimenticandosi un po' di tutto il resto.

Movieplayer.it

3.0/5