Recensione La scomparsa di Patò (2010)

Partendo dal romanzo di Andrea Camilleri, caratterizzato da un notevole sperimentalismo linguistico, il regista Mortelliti realizza un adattamento cinematografico più lineare, puntando soprattutto sulla ricostruzione scenografica e sulla valorizzazione degli interpreti.

A ciascuno il suo (testo)

Tutto cominciò da Leonardo Sciascia, per la precisione da un'annotazione di A ciascuno il suo, nella quale si accenna alla figura del ragioniere Antonio Patò. Un aneddoto enigmatico e sibillino, di quelli che piacevano tanto allo scrittore di Racalmuto: un bel giorno, durante la recita del "Mortorio" (uno spettacolo sacro messo in scena di Venerdì Santo, particolarmente diffuso nella Sicilia antica), Patò (che impersonava Giuda), scomparve senza che se ne seppe più nulla. La sua sparizione divenne così proverbiale, e adatta a simboleggiare molti dei meccanismi oscuri di cui è pervasa l'intera Trinacria. La curiosa epopea di Antonio Patò è continuata a vivere in un'opera di un altro scrittore originario dell'agrigentino, Andrea Camilleri, che in una delle sue incursioni nella Vigàta ottocentesca rielabora lo spunto di Sciascia incardinandolo (come suo solito) nel genere giallo.
L'aspetto più interessante del romanzo La scomparsa di Patò, tuttavia, non sta nel contenuto, quanto piuttosto nella forma. Di fatto si tratta di un racconto senza un vero e proprio narratore: la storia prende vita attraverso la ricostruzione di una galassia eterogenea di finti documenti d'epoca - dalle lettere ufficiali in ostico burocratese, agli scritti aulici della stampa locale, fino ai "pizzini" composti da semianalfabeti - unendo una scrupolosa ricerca filologica con una creatività linguistica portentosa (per rendersene conto basta leggere la filastrocca di Patò, un florilegio di allitterazioni e giochi di parole degna di Queneau). La scomparsa di Patò non è quindi un "testo" nel senso stretto del termine, ma piuttosto una moltitudine fluttuante di testi, da cui scaturisce una polifonia di registi, dialetti, gerghi che si fronteggiano gli uni contro gli altri, mettendo in risalto l'irriducibile diversità di anime contrastanti che popolava la caotica Sicilia di allora (non poi troppo diversa da quella di oggi).


Tradurre in termini cinematografici tutta la complessità linguistica del romanzo di Camilleri è forse impossibile: sarebbe stato necessario sperimentare mezzi espressivi differenti, intrecciando magari la finzione con documenti reali, la recitazione con elementi grafici e visivi. Il regista Rocco Mortelliti, che vanta una lunga frequentazione con Camilleri (essendo stato suo allievo all'Accademia d'arte drammatica "Silvio D'Amico", in seguito avendo adattato alcune sue opere in forma lirica ed essendo anche divenuto suo genero), sembra invece accostarsi all'opera originaria con molta umiltà e schiettezza, optando per una narrazione classica e lineare della detective story. Le immagini con cui esordisce La scomparsa di Patò sono del resto chiarificatrici: le pagine originali del libro vengono bruciate in un falò, quasi a prenderne in un certo qual modo le distanze, anche se la trama filmica ricalca in maniera fedele i principali eventi del romanzo. E così, nonostante la presenza aleggiante e fantasmatica di Neri Marcoré nelle vesti dell'ingannevole Patò, i veri protagonisti del film sono gli amici-nemici Nino Frassica e Maurizio Casagrande, rispettivamente maresciallo dei Carabinieri e delegato della Pubblica sicurezza, che formano un'autentica coppia farsesca da Commedia dell'arte. Mortelliti è soprattutto un regista d'opera lirica e riversa anche sul set cinematografico l'amore per una composizione scenografica e per una messa in scena sontuosa. La sua formazione teatrale gli consente, inoltre, di valorizzare soprattutto la recitazione degli interpreti, tra cui si distinguono numerosi rappresentanti della scuola siciliana (dal sanguigno Giovanni Calcagno all'istrionico Manlio Dovì), senza contare le piccole partecipazioni di mostri sacri del palcoscenico come Flavio Bucci, Simona Marchini e Roberto Herlitzka. Dal punto di vista strettamente cinematografico, invece, non si riscontrano particolari accorgimenti stilistici, se non nella parte conclusiva, in cui viene rappresentata anche dal punto di vista visivo la ricostruzione investigativa del maresciallo e del delegato di polizia. Seguendo una linea interpretativa eccessivamente semplificata, lo sperimentalismo polifonico di Camilleri finisce forse un po' troppo per annacquarsi. L'eccessiva volontà di chiarificazione fa perdere un po' il fascino ambiguo e indecifrabile che possedeva l'originaria figura metaforica del ragioniere Patò, simbolo dei tanti misteri e delle molte ipocrisie che popolano il "teatrino" siciliano.