La voce degli indios: Bechis al Lido con La terra degli uomini rossi

I protagonisti del film di Marco Bechis, cinque indios della tribù dei Guarani-Kiowà, portano al Lido un appello toccante sui loro diritti e la loro identità.

Quando il cinema non viene prima di tutto. Anche un festival elegante e glamour come quello veneziano si ferma a riflettere quando gliene viene offerta l'occasione. Lo ha fatto di fronte alla feroce parabola sul vizio del gioco e sulla distruzione di una famiglia presentata dal regista e produttore indipendente Amir Naderi, che da giorni si aggira al Lido vestito con la solita maglietta blu dispensando sorrisi a chiunque gli rivolga la parola e, nello stesso tempo, impartendo una grande lezione di cinema con il suo Vegas: Based on a True Story, pellicola finanziata interamente con i soldi vinti al casinò dal regista e da alcuni amici giocatori d'azzardo. Lo ha fatto durante la conferenza di La terra degli uomini rossi - Birdwatchers, meno affollata rispetto a quelle che vedevano in sala i nutriti cast dei film di Ozpetek e Avati, ma molto più appassionata. Marco Bechis, per il suo film, non ha convocato attori di sicuro appeal al botteghino. Gli unici italiani nel cast sono Claudio Santamaria e Chiara Caselli che, durante l'incontro con la stampa, non intervengono mai. L'attenzione, infatti, è tutta rivolta ai cinque indios della tribù dei Guarani-Kiowà che Bechis ha voluto al suo fianco a Venezia in rappresentanza di un popolo che lotta contro l'estinzione e a cui è dedicato l'ultimo lungometraggio del regista. E' la loro voce quella che si ode con chiarezza scandire parole quali orgoglio, speranza, futuro. E' la loro voce che sentiamo commuoversi (e commuovere) fino alle lacrime nel raccontare la propria condizione e la lotta quotidiana per la sopravvivenza nel Mato Grosso du Sul.

A parlare per primo è Ambrósio Vilhava, capo tribù Kiowà nel film e nella realtà che, con tono pacato, ma consapevole spiega di essere giunto al Lido perché, nonostante tutto, continua a nutrire una grande speranza nel futuro. "Non voglio giudicare voi bianchi che siete di fronte a me, perchè non vi conosco. Spero solo che capiate la situazione in cui versano i nativi americani. La fiducia che ripongo in questo film realizzato da Marco è grandissima perché spero che una visione dall'alto aiuti a conoscere e comprendere la nostra situazione". Gli fa eco il giovanissimo, e un po' intimidito Ademilson Concianza Verga che spiega : "Noi per sopravvivere abbiamo bisogno di cacciare e pescare, ma non abbiamo più la foresta. Proprio per questo motivo il film è così importante, perché narra la nostra storia e mostra al mondo ciò che ci è accaduto". La testimonianza più toccante di tutte è, però, quella di Eliane Juca da Silva, la bella Mami del film, che prende la parola per un lungo e sentito monologo che nessuno, a dispetto dei ritmi ferrei imposti dalla mostra, ha il coraggio di interrompere. "Noi Kiowà non ci aspettavamo un'opportunità come quella che il film ci ha offerto. Pensare al nostro popolo che muore, ai tanti bambini che soffrono, mi fa sta male. Siamo per qui per chiedere un'opportunità. La cultura dei bianchi è penetrata anche nelle nostre tribù. Oggi ci vestiamo e ci pettiniamo come voi, ma la nostra storia è diversa dalla vostra. Noi vogliamo soltanto la nostra terra. Quello che vedete nel film di Marco è la verità. Desideriamo che gli altri ci conoscano, vogliamo rappresentare il Brasile con la stessa dignità degli altri suoi abitanti".

Tra i vari argomenti che il film affronta vi anche il delicato tema del suicidio giovanile, piaga delle nuove generazioni delle tribù native che è in continuo aumento a causa della precarietà in cui i Kiowà vivono. A parlare è nuovamente Ambrosio. _"La mancanza di sostegno nella tribù è terribile. Conoscevo un giovane di diciannove anni che ha deciso di togliersi la vita quando ha scoperto che la moglie era incinta. Io l'ho esortato a resistere, a tenere duro e avere fiducia nel futuro, ma lui non ce l'ha fatta. Non è riuscito a sopportare l'incertezza e la mancanza di sicurezza per il futuro del figlio. E' triste ammettere che il suicidio è l'unica soluzione che abbiamo per renderci visibili agli occhi dei brasiliani. Gli indios non hanno alcun diritto. Le associazioni internazionali vengono nei nostri villaggi con avvocati ed esperti di diritto, ma non è questo ciò che ci serve. La burocrazia ci uccide. Questi sono strumenti occidentali che noi non conosciamo perciò partiamo svantaggiati. La giustizia c'è solo per i ricchi, per gli imprenditori, mentre nel nostro caso al massimo troviamo la pietà. Quello che vogliamo è che sia riconosciuta la nostra libertà di trovare sostentamento nella terra che era nostra e che ci è stata strappata". _