Recensione Denti (2007)

L'idea sfrontata che è alla base del film si esaurisce nel giro di pochi minuti, e i Denti di Lichtenstein non lasciano il segno nello spettatore e neanche tra le pellicole proposte in questi ultimi scampoli della stagione estiva.

Un sorriso poco affilato

A più di un anno dalla sua presentazione al Sundance Film Festival - nell'ambito del quale ha vinto il Premio Speciale della Giuria - arriva nelle nostre sale Denti, l'esordio alla regia di Mitchell Lichtenstein, attore e cineasta figlio di Roy Lichtenstein, leggendario pioniere della pop-art americana. Inevitabilmente la presentazione del film ha già suscitato una certa curiosità negli spettatori - almeno quelli che decideranno di recarsi al cinema nei torridi week-end estivi - se non altro per l'idea sfrontata e divertente che ne è alla base, e che tuttavia non è stata sviluppata in maniera adeguata.

I denti che danno il titolo al film, sono quelli che hanno trasformato la vita di Dawn, una ragazzina americana come tante, in un incubo: in questo caso però non si tratta però di una dentatura ingombrante come quella del protagonista dell'omonimo film di Gabriele Salvatores, ma di una vera e propria tagliola situata nella vagina della ragazza.
Dopo un breve prologo in cui viene mostrato il primo, tagliente approccio di Dawn con il sesso, avvenuto quando era appena una bambina, la storia riprende ai giorni nostri, con la protagonista ormai adolescente che cerca di reprimere le inevitabili (e pericolose, nel suo caso) tempeste ormonali tipiche della sua età facendo parte di un gruppo di coetanei che si propongono stoicamente di restare vergini fino alle nozze.
Nonostante questo, Dawn si sente attratta dal suo amico Toby, e un giorno è sul punto di cedere ai propri istinti, quando lui mostra le sue vere intenzioni, prettamente legate al sesso, senza alcuna sfumatura di romanticismo. Da quel momento, Dawn prende coscienza della ferocia della propria vagina, un organo quasi autonomo che giudica in maniera drastica e impietosa i suoi partner senza accettare nessuna mediazione da parte della testa e del cuore. La conferma arriva anche dalla sentenza di un ginecologo, che dopo averle diagnosticato una mutazione fisica nota come vagina dentata, farà una fine orribile.
Da questo momento in poi il film perde mordente - mi si perdoni il gioco di parole - e scade in un inevitabile susseguirsi di prevedibili brutalità da cinema di serie B, durante il quale non vengono risparmiati dettagli su peni tranciati di netto o inghiottiti da cani affamati. L'idea di Lichtenstein si esaurisce nella prima parte della pellicola, che poi si trasforma in un indeciso pastiche che vorrebbe ispirarsi ai primi film di Cronenberg senza averne la stessa morbosa intensità drammatica, ma anche alle pellicole exploitation lasciando fuori però la loro fantasiosa carica trasgressiva.
Non riesce neppure ad essere convincente come satira femminista, considerato che si limita a mettere in scena angosce prettamente maschili, piuttosto che un feroce processo di rivalsa della donna sull'uomo, e inoltre il regista non ha ereditato dal celebre genitore le stesse abilità nella raffigurazione visiva, e di conseguenza la mise en scène è piuttosto scialba e penalizzata da una recitazione scadente.
Se si esclude quindi l'esilarante scena finale - che si deve alla strepitosa mimica del caratterista Doyle Carter - gli affilati Denti di Lichtenstein non sono destinati a lasciare il segno nello spettatore e neanche tra i film che vengono proposti in questi ultimi scampoli della stagione estiva.

Movieplayer.it

2.0/5