Recensione Sulla mia pelle: Stefano Cucchi e il volto disumano della legge

La recensione di Sulla mia pelle: ad aprire la sezione Orizzonti di Venezia 2018 è il film di Alessio Cremonini con Alessandro Borghi, cruda ricostruzione della vicenda di Stefano Cucchi.

Sulla Mia Pelle Alessandro Borghi Jasmine Trinca
Sulla mia pelle: Alessandro Borghi e Jasmine Trinca in una scena del film

I sette, terribili giorni di un doloroso calvario, culminato nella notte fra il 21 e il 22 ottobre 2009. La morte di Stefano Cucchi, trentenne romano fermato una settimana prima dai carabinieri e arrestato per possesso di hashish e cocaina, rimane uno dei più scandalosi e discussi casi della cronaca italiana dell'ultimo decennio, con un primo processo conclusosi con un'assoluzione, la successiva riapertura delle indagini e, nel luglio 2017, il rinvio a giudizio di cinque carabinieri. E mentre la vicenda giudiziaria è ancora in pieno svolgimento, il film Sulla mia pelle rievoca invece, a partire dal suo arresto, gli ultimi giorni della vita di Cucchi. Sceneggiato e diretto da Alessio Cremonini, al suo secondo lungometraggio cinematografico dopo Border, e interpretato da Alessandro Borghi, Sulla mia pelle è stato scelto come titolo d'apertura della sezione Orizzonti alla settantacinquesima edizione della Mostra di Venezia, prima di approdare in contemporanea nelle sale italiane, distribuito da Lucky Red, e nel catalogo di Netflix.

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Il calvario di Stefano Cucchi

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Aperto da una rapida prolessi sulla mattina del 22 ottobre 2009 per poi ritornare alla fatidica serata del 15 ottobre, Sulla mia pelle adotta un approccio ben preciso, a cui tiene fede poi per tutta la sua durata: un rigore che, visto il carattere della materia trattata, impedisce al racconto di scivolare nelle trappole del pathos ricercato a tutti i costi, così come nei cliché della tipica opera di denuncia. Al contrario, Alessio Cremonini evita saggiamente di forzare i toni per affidarsi in tutto e per tutto all'asciuttezza dei fatti; e laddove i fatti rimangono avvolti da un velo di indeterminatezza, la forza intrinseca del film si rivela più che sufficiente a mantenere intatti i livelli di tensione. Si veda il caso emblematico del pestaggio di Stefano Cucchi: l'evento-cardine della storia non si svolge davanti agli occhi dello spettatore, ma è relegato in un'ellissi che risuona con una potenza assordante.

In questo modo, il film di Cremonini non solo si sottrae ai rischi di un semplice manicheismo, ma lascia che a parlare siano i segni sulla pelle del protagonista, trasformando il corpo di Cucchi - livido, tumefatto, scheletrico - in un elemento narrativo primario ed ineludibile. In quest'ottica risulta eccezionale il lavoro di Alessandro Borghi, artefice di una prova mimetica, ma anche equilibrata alla perfezione: dal suo corpo ferito, dalla voce sempre più strascicata, dallo sguardo spento e disilluso emerge, giorno dopo giorno, la silenziosa disperazione del personaggio, rassegnato al proprio ruolo di vittima all'interno di un meccanismo rispetto al quale Stefano avverte di non potersi sottrarre.

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Un omicidio di Stato

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E al di là delle circostanze della vicenda specifica (per la quale ancora si attende che la giustizia italiana si pronunci in maniera definitiva), il suddetto meccanismo è appunto il bersaglio primario di Sulla mia pelle, nonché il suo principale territorio d'indagine: la superficialità, l'indifferenza, la comoda vigliaccheria che intaccano come un cancro organismi e apparati dello Stato. Perché a suscitare un brivido più e più volte, nel corso della visione, sono proprio il distacco o la cecità ipocrita manifestati nei confronti di Stefano Cucchi, la facilità con cui viene accettata la sua reiterata frase "Sono caduto dalle scale": senza assunzioni di responsabilità, senza un reale tentativo di scardinare quella versione per nulla credibile. E con l'aggravante di una burocrazia disumana che impedirà ai genitori di Cucchi e alla sorella Ilaria (Jasmine Trinca) di avere contatti con il ragazzo durante il suo ricovero all'ospedale Sandro Pertini.

Suburra Borghi Netflix

La fotografia cupa di Matteo Cocco e la prevalenza delle ambientazioni in interni (appartamenti, celle, aule di tribunale e camere d'ospedale) contribuiscono in misura ulteriore a quel senso di claustrofobia via via più opprimente di cui tutto il film è permeato: senza momenti di vera tregua, senza mai allontanarsi troppo a lungo dagli occhi e dal volto del suo protagonista. Quel volto fotografato in un agghiacciante ritratto post mortem, sul lettino dell'autopsia, e diventato l'inesorabile memorandum di una vergogna nazionale di cui il film di Cremonini rappresenta una penosa e lucidissima testimonianza.

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3.5/5