Recensione Grido (2006)

'Grido' non è solo l'auto-biopic surreale di Pippo Delbono. E' qualcosa di più: sono appassionate dichiarazioni d'amore in forma di cinema.

Silenzi e grida

Sua madre avrebbe voluto per lui una brillante carriera universitaria alla facoltà di economia e commercio e una bella fidanzata con la quale metter su famiglia. Pippo Delbono, invece, ha preferito la magia primitiva del teatro, il doppio mestiere d'attore e regista, e le lotte in riva al mare con un amore ubriaco dai contorni ispidi. Grido nasce dai suoi ricordi, ha la voce grossa delle maschere dal sorriso giallo e quella calda che resta rispettosa dietro le immagini, che racconta, sempre sul punto di spezzarsi, di vita e di morte, di follia e di insostenibile meraviglia, e di immortale, ammalante amore.
La seconda volta di Delbono dietro la macchina da presa, dopo l'entrata in Guerra, è un'opera emozionante che trabocca copiosa d'Arte, vibrante e ricca degli echi sperimentali delle avanguardie storiche, dell'afflato poetico di Rimbaud, del linguaggio corporeo sovraccarico di senso di pasoliniana memoria, della capacità unica di Shakespeare di scandagliare il dramma della varia umanità, delle musiche che si rincorrono languidamente nei vicoli napoletani e dei rapporti surreali immersi in un malinconico umorismo di scuola kitaniana.

Quando il teatro sa trovare la sua giusta collocazione nell'universo cinema, quando sullo schermo si possono ancora portare la recitazione esasperata e la purezza della vita reale per battere le strade del sogno e della memoria, quando si ha il coraggio di raccontare senza compromessi o gabbie narrative una storia piccola e la fine di una candela, che non esaurisce mai la sua cera, si è in un territorio in cui si respira aria pulita, ci si inzuppa di poesia e si abbandonano i pensieri superflui, per essere attraversati da quelli liberi di chi ha dentro tutto il mondo e sta scoppiando. Delbono porta il suo segreto, l'intimo dramma e il bisogno dell'altro, sul mare di Napoli, nelle strade affollate, dove la gente deve gridare per ricordare agli altri che esiste, e nei manicomi abbandonati, lasciati allo scorrere del tempo, anneriti dalle leggi chirurgiche del contrappasso. Il suo è un percorso, fatto di silenzi e grida, nella memoria, tra i fantasmi del passato, le parole che camminano a piedi nudi sul palcoscenico, i mimi con il cuore dietro il trucco e gli angeli senza voce del presente. Ad accompagnarlo in questo difficile viaggio è Bobò, sordomuto con la nebbia nella mente, accolto da Delbono sotto un'ala, per prendersi cura di lui e da lui lasciarsi salvare la vita.

Ma Grido non è solo l'auto-biopic surreale di Pippo Delbono, artista ligure che ha lasciato pezzi di anima e di mente nella città partenopea, dove oggi i pulcinella hanno le mani legate e sulle sculture di legno colano fiumi di sangue. E' qualcosa di più: sono appassionate dichiarazioni d'amore in forma di cinema. Per il teatro, vocazione ed ancora di salvezza, scorciatoia d'espressione e comunicazione, e mezzo catartico per sputare fuori le ombre che abitano il corpo; per Napoli, città triste dove nasce e muore l'amore, dove muore e rinasce la vita; ma, soprattutto, per l'amore stesso, incontrato per caso, vissuto, combattuto, carbonizzato, perso per sempre eppure per sempre dentro, nelle zone d'ombra della periferia di un'esistenza che ha scelto di vivere ogni giorno come una sfida, senza dare mai nulla per scontato. Il successo internazionale della compagnia teatrale di Delbono è la giusta ricompensa per un uomo che ha messo la sua vita su un palcoscenico, senza vergogna, con grande dignità e superbo genio artistico. Un film bello, bellissimo, che forse è già destinato a restare invisibile, ma che difficilmente scivolerà via dal nostro cuore.