Recensione The Zero Theorem (2013)

Terry Gilliam fa sfoggio del suo ricchissimo coté visivo, nonché della sua sfrenata immaginazione, per narrare una favola ambientata in un futuro che esaspera ed estremizza molti aspetti della società moderna.

L'esistenza in un teorema

Siamo in un futuro imprecisato. Qohen Leth è uno scienziato impiegato in una multinazionale, che, al di fuori del lavoro, vive una vita solitaria all'interno di una chiesa diroccata. L'uomo aspetta spasmodicamente una telefonata, prosecuzione di una conversazione telefonica interrotta anni prima: secondo la sua idea, la telefonata sarà destinata a cambiargli l'esistenza, svelandogli il senso della vita. Ottenuto, dal responsabile del management, il permesso di svolgere il lavoro presso la propria abitazione, a Qohen viene affidato il compito di dimostrare il "teorema zero", quello per cui l'intero universo sarebbe privo di un senso. Contemporaneamente, però, Qohen inizia a ricevere le visite di Bainsley, un'affascinante donna che gestisce un sito web che permette incontri virtuali straordinariamente realistici; e quelle del giovanissimo Bob, sveglio e simpatico figlio del capo del Management. I due inizieranno, lentamente, a mettere in dubbio le certezze dello scienziato sulla telefonata da lui attesa, nonché a far breccia nella sua ostinata solitudine.

E' sempre difficile restare indifferenti, almeno visivamente, a un film di Terry Gilliam: persino in un'opera imperfetta come Parnassus - L'uomo che voleva ingannare il diavolo, funestata dalle ben note traversie legate alla scomparsa di Heath Ledger, l'ex Monty Python era riuscito ad ovviare ai limiti di script con la sua straripante fantasia visiva. In questo The Zero Theorem, il coté scenografico di Gilliam è ancora più elaborato, debordante, felicemente contaminato: un insieme di cyberpunk, cromatismi simil-carrolliani da Alice in Wonderland postmoderno, fantasie neo-gotiche negli interni dell'abitazione del protagonista. Con lo scopo di chiudere un'ideale trilogia iniziata con Brazil e proseguita con L'esercito delle dodici scimmie, Gilliam mette in scena un mondo che, sotto la patina di un'estetica da science fiction (pur sui generis) somiglia molto a quello contemporaneo: la perenne connessione di tutti gli individui in una rete che copre ogni aspetto della vita, l'isolamento di chi da tale rete sceglie di restare fuori, la targettizzazione dei messaggi pubblicitari (che inseguono, letteralmente, i propri destinatari), la sovrapposizione dei tempi, e degli strumenti, di svago e di lavoro. Su questo sfondo, il regista si propone di innestare una riflessione filosofica sulla vita, sulla natura dell'uomo di "animale sociale", sulla dialettica tra un materialismo di stampo nichilista e una spiritualità laica: motivi in cui si trovano, anche, echi di certo Darren Aronofsky, in particolare del suo esordio Pi - Il teorema del delirio e del poco apprezzato L'albero della vita.
Quando sceglie di concentrarsi sull'evoluzione del personaggio di Qohen (un efficace Christoph Waltz) e sul superamento del suo isolamento, la sceneggiatura inizia però a perdere di vista i suoi propositi, e a banalizzare oltremodo i temi trattati. Da una trattazione di stampo generale, in cui trova potenzialmente spazio la politica, una riflessione sul potere, su una società iper-mediata e sulla conseguente disintegrazione dell'identità, l'obiettivo si restringe, concentrandosi sull'abbattimento del muro che separa un individuo dai suoi simili. Il modo in cui Gilliam porta avanti questo argomento, sotto il vortice immaginifico delle sue immagini, resta in realtà abbastanza stereotipato: una love story piuttosto debole (con Mélanie Thierry a fare da controparte) e l'evoluzione di un rapporto, quello col giovane Bob, le cui potenzialità non vengono sfruttate al meglio. E' pur vero che il tono favolistico che il regista ha voluto imprimere alla vicenda era palese sin dai primi minuti: ma, da un certo punto in poi, si ha l'impressione che la storia resti indipendente dalla sua ambientazione, e che lo sguardo sul futuro (meglio: su un presente che vede esasperati alcuni dei suoi aspetti) venga messo sostanzialmente da parte.
Per il resto, comunque, The Zero Theorem è puro Gilliam: con i personaggi grotteschi, la recitazione iperrealista e sopra le righe, le inquadrature sghembe e, più in generale, la sfrontata forza immaginifica che ha sempre caratterizzato il suo cinema. All'interno di un cast, comunque, ben assemblato, vanno ricordati anche l'ambiguo dirigente aziendale interpretato da Matt Damon, un'irriconoscibile Tilda Swinton nel ruolo di una psicologa virtuale, e il giovane Lucas Hedges (già visto in Moonrise Kingdom) a vestire i panni di Bob. La capacità del regista di costruire mondi, e di ambientarvi vicende che mantengono comunque una certa impronta personale, resta sostanzialmente immutata. E' la narrazione, in questo caso, a soffrire di un certo squilibrio tra le ambizioni iniziali e la sua effettiva messa in racconto, con un soggetto che lascia inespresse molte delle sue potenzialità. L'occhio del cinefilo, pur con qualche rimpianto, potrà comunque trovare più di un motivo di soddisfazione, anche da questa nuova, imperfetta prova del regista americano.

Movieplayer.it

3.0/5