Recensione Mommy (2014)

Quinto film per l'enfant terrible canadese Xavier Dolan che torna a Cannes, al festival che l'ha sempre sostenuto e lanciato, con la sua opera migliore e più matura, in cui si permette perfino di sperimentare e conquistare applausi a scena aperta per coraggio e sensibilità.

Ragazzi terribili, ma prodigiosi

E' possibile ancora stupire il pubblico e la critica cinematografica al giorno d'oggi? E' una domanda lecita e meno banale di quello che può sembrare, perché se è vero che fior di cineasti cercano costantemente di spingersi oltre, e spesso con grande dispendio di budget e di risorse e affidandosi a tecnologie e tecniche nuove e sempre più complesse, al solo scopo di raggiungere nuovi traguardi in campo filmico, quelli che poi effettivamente ci riescono e al tempo stesso realizzano un film che non sia un solo esercizio di stile si possono veramente contare sulle dita di una mano.

E poi arriva Xavier Dolan - classe 1989 ma quattro film alle spalle, tutti premiati e presentati nei più importanti festival internazionali - che con la sfrontatezza e noncuranza di chi è giovane, talentuoso e ben lontano dalle regole di un'industria che scoraggia l'originalità e il rischio, realizza la sua quinta opera, Mommy, partendo da quello sembra quasi un pretesto, ovvero l'utilizzo del formato d'immagine 1:1, un'immagine quadrata che parrebbe provenire più dalla fotografia (dalle vecchie Polaroid al più recente Instagram) che dal cinema, dove raramente è stata usata negli ultimi 70/80 anni.

(In)Quadrature

Antoine-Olivier Pilon e Anne Dorval in una scena del film Mommy
Antoine-Olivier Pilon e Anne Dorval in una scena del film Mommy

Ma un semplice capriccio invece non è, perché in questo modo Dolan letteralmente ci chiede di vivere in un mondo ristretto, in cui la nostra visione è limitata e limitante proprio come quella dei protagonisti senza speranza che racconta; ed è una scelta soffocante, e all'inizio anche irritante, perché sembra effettivamente diminuire le nostre capacità di osservazione, il nostro sguardo cinematografico abituato a scrutare attentamente ogni cosa. Ma lo scopo di Dolan è anche questo, farci concentrare sui suoi protagonisti che diventano a questo punto il centro di veri e propri ritratti e di farci vivere anche i loro battibecchi in modo nervoso, quasi fossimo lì, con la macchina da presa che si sposta costantemente da uno all'altro per mettere al centro dell'immagine chi sta parlando.

Ritorno a casa

E di battibecchi e di momenti di tensione ce ne sono tanti, perché la storia di Diane è piena di ostacoli e pericoli: vedova e senza un vero lavoro, la donna riesce a cavarsela sempre e comunque grazie al suo carattere forte e al suo ottimismo, ma si trova anche in difficoltà quando si tratta di gestire il figlio Steve, un ragazzo sveglio e capace di grande dolcezza, ma anche incline a momenti di incontrollabile violenza, fisica e verbale, a causa dei disordini mentali che gli sono stati diagnosticati fin da giovanissimo. Quando lo incontriamo per la prima volta, ha appena dato fuoco alla caffetteria di un istituto presso cui era in cura e da cui viene prontamente cacciato. A questo punto per la madre le scelte possibili sono due, farlo richiudere (anche grazie ad una speciale e fittizia legge introdotta in apertura del film) in un ospedale psichiatrico o portarlo a casa dove però dovrà essere accudito e controllato costantemente. Diane sceglie senza alcun dubbio la seconda opzione, con la speranza di potergli dare un'educazione personalmente e direttamente a casa.

Un aiuto inaspettato e silenzioso

A venire in aiuto dei due, c'è la nuova dirimpettaia, Kyla, una donna che in seguito ad un tragico evento si è lentamente allontanata dalla propria famiglia e dal proprio lavoro di insegnante, e si è ritirata in una sorta di nervoso silenzio (auto)imposto anche da un improvviso balbettio. L'incontro avviene in seguito ad un brutale episodio di violenza tra Steve e sua madre, ma Kyla con la sua tenerezza e la sua tranquillità sembra avere un effetto positivo su Steve ed è così che comincia un'amicizia ed un rapporto di complicità ed intimità che porterà benefici a tutti.

Il film è pervaso da una contagiosa ed entusiasmante joie de vivre che esplode in sequenza destinata a rimanere nella storia del cinema

Il muro delle meraviglie

Mommy: Anne Dorval in una scena
Mommy: Anne Dorval in una scena

Nonostante il soggetto drammatico ed importante, lo stile di Dolan è quello grandioso ed esuberante della stupefacente terza opera, Laurence Anyways, piuttosto che quello delle altre sue opere tematicamente più vicine, come il precedente e cupo Tom At The Farm o il fulminante esordio J'ai tué ma mère, concentrato proprio sul rapporto di amore/odio con la madre. Tutta la pellicola è invece pervasa da una contagiosa ed entusiasmante joie de vivre, presente fin da subito nelle vivaci scenografie e fotografia, nelle musiche perfettamente scelte, nei brillanti, scatenati e talvolta irriverenti e sboccati dialoghi; ma dove esplode è in una sequenza destinata a rimanere nella storia del cinema oltre che negli occhi e del cuore degli spettatori: una sequenza segnata dalla celebre Wonderwall degli Oasis e in cui la speranza finalmente si riaffaccia nella vita di queste tre persone ferite, abbatte il muro dell'incertezza e della paura, e lascia i protagonisti liberi di ampliare i propri orizzonti e guardare il futuro e quindi anche letteralmente di allargare il formato della pellicola e lasciare che anche gli spettatori possano andare oltre il semplice ritratto e godersi la vita, ed il cinema, a tutto schermo.

Vivo per lei

Ma proprio come i protagonisti, anche gli spettatori sanno che questo effetto "magico" non è destinato a durare, perché le difficoltà di Steve sono evidenti come la sua affezione ad entrambe le donne, anche se è la madre soprattutto ad essere costantemente oggetto dei suoi desideri così come della sua rabbia. Il loro è un rapporto naturale e morboso al tempo stesso, destinato a fallire dal principio, ma comunque cementato in un amore unico, indiscutibile e incancellabile. Kyla sembra essere l'elemento mancante che riesce a bilanciare, fin dove è possibile, questo rapporto e lo fa con dolcezza ma decisione, dando tutta se stessa ma riuscendo comunque a tenere nascosti i propri demoni e i propri problemi, come fosse consapevole di vivere un rapporto non paritario ma di cui è semplicemente ospite. E' attratta e affascinata da Diane e dall'idea di un nuovo inizio, una nuova famiglia, ma anche consapevole della reale possibilità che questo possa succedere, ma continua a sperare, forse perché non ha scelta. Continua a sperare fino a che ad un certo punto la realtà dei fatti è più forte dell'illusione ed è costretta a tornare a quella che è la sua vita e i suoi problemi, lasciando Diane sola e libera di continuare a sognare e mentire a se stessa come ha sempre fatto.

Gli attori, prima di tutto

Come già nel citato Laurence Anyways, anche in Mommy Xavier Dolan rimane questa volta dietro la macchina da presa (ma i suoi credits includono anche i ruoli di sceneggiatore, montatore, costumista e perfino di curatore per i sottotitoli in francese ed inglese) e lascia spazio agli altri straordinari interpreti: non è un caso a questo punto che siano proprio questi due i film più riusciti della sua breve ma intensa carriera, non perché le sue qualità di attore non siano all'altezza, ma perché quando la sua concentrazione può essere tutta per le sue star la sua direzione degli attori è assolutamente impeccabile e, ancora una volta, stupefacente per maturità.
Dolan non ha mai fatto segreto del suo grande rispetto per il mestiere dell'attore e della gratitudine per quegli interpreti che hanno creduto in lui e si sono affidati alla sua guida; è per questo che in questo film ritroviamo tutti interpreti già visti precedentemente, come Pierre-Yves Cardinal nel piccolo ruolo di un infermiere e il giovanissimo protagonista Antoine-Olivier Pilon, che dopo piccole parti in un videoclip e in Laurence, qui si ritrova un ruolo bellissimo e molto complesso e ripaga la fiducia del suo regista con un'interpretazione potente e magnetica.

Mommy: Antoine-Olivier Pilon in una scena
Mommy: Antoine-Olivier Pilon in una scena

Ancor più che il bravissimo Steve, però, il cuore del film sono, a nostro parere, le due donne, interpretate dalle due "muse" di Dolan, Anne Dorval (la madre del primo film) e Suzanne Clément (indimenticabile, e premiata, protagonista di Laurence Anyways). Diane e Kyla sono due donne diversissime e complementari, sboccata ed energica la prima, timida e impacciata la seconda, ma insieme riescono a darsi forza e speranza l'un l'altra e a trovare ragioni per tornare a ridere. La loro chimica è assolutamente perfetta, così come la tensione erotica, appena accennata, ma presente fin dai primi sguardi. La Dorval finirà probabilmente con il guadagnarsi la maggior parte delle attenzioni della critica, e di eventuali premi, ma riteniamo che in realtà scindere le due interpretazioni sia un peccato ed un errore, perché è solo insieme che rispecchiano le qualità e i difetti di Steve, ed è solo insieme che riescono a domarlo.

Conclusione

Essere un regista prodigio ed influente a 25 anni ha certamente i suoi vantaggi, ma porta con sé anche un peso ed una responsabilità notevole. Questo rende ancora più impressionante il risultato di Mommy, che sembrava dover vedere Dolan ritornare ai temi e allo stile del primo film, ma che invece prende una strada completamente diversa, una strada che è il perfetto esempio della rapidissima e crescente evoluzione di un cinema che si fa sempre più personale e meno (auto)referenziale. I difetti ovviamente sono presenti, ma annegano nell'oceano di emozioni, stile e messaggi che il film riesce a veicolare. Per l'ennesima volta Xavier, chapeau!

Movieplayer.it

4.5/5