Recensione Joe (2013)

Sia nella gestione del racconto che nello stile, David Gordon Green si prende delle libertà dal canone sfoderando una vena che a tratti tende verso lo sperimentalismo. Segno, questo, di una maggior sicurezza nei propri mezzi espressivi.

Dopo la vittoria a Berlino, da dove è ripartito stringendo tra le mani un Orso d'argento per la miglior regia, David Gordon Green poteva capitalizzare il successo ottenuto con Prince Avalanche realizzando un'altra pellicola leggera e divertente, ma l'autore texano non sembra intenzionato a giocare facile. Dopo i passi falsi delle due commedie realizzate sotto l'egida di Universal e Fox, Green è tornato al mondo indie da cui proviene confezionando un lungometraggio crudo e coraggioso. Joe è un film difficile, meno immediato e compatto dell'opera precedente, forse anche meno compiuto.

Un film con molti più personaggi, tante vie di fuga narrative e una star, Nicolas Cage, su cui Green ha deciso di scommettere affidandogli uno dei personaggi più belli e complessi della sua carriera. Joe è tratto dall'omonimo romanzo di un autore americano di culto, il compianto Larry Brown, la cui opera setaccia con sguardo originale l'universo white trash sudista, quella spazzatura umana soggetto privilegiato di tanto cinema indipendente. Il regista trasferisce la vicenda dall'originario Mississippi al nativo Texas, sfruttando come location le maestose foreste e le strade deserte e polverose che hanno ospitato le avventure dei due operai di Prince Avalanche.

Creature selvagge

Anche in questo caso la natura è una delle componenti essenziali di una pellicola dal ritmo discontinuo che alterna fasi incalzanti a momenti di puro lirismo. Sia nella gestione del racconto che nello stile, David Gordon Green si prende delle libertà dal canone sfoderando una vena che a tratti sfiora lo sperimentalismo. Segno, questo, di una maggior sicurezza nei propri mezzi espressivi. Quanto a Nicolas Cage, l'attore dalla carriera altalenante torna a misurarsi con un personaggio maturo che lo spinge a toccare corde profonde, a plasmare il proprio fisico e, a tratti, anche la propria anima. Joe è un piccolo imprenditore dal passato complicato che gestisce una squadra di disboscatori, un lupo solitario abituato a risolvere i propri problemi con i pugni o con le pistole che non disdegna la compagnia delle prostitute. L'incontro con il giovanissimo Gary e con il padre, alcolista e violento, è il cortocircuito che modifica la sua esistenza spingendolo a prendere il ragazzo sotto la sua ala protettrice, il tutto con conseguenze devastanti. Per introdurre e sviluppare con adeguata profondità il personaggio di Joe, David Gordon Green si prende il tempo necessario dilatando la successione degli eventi. I suoi comportamenti e la conseguente evoluzione seguono un ritmo sincopato, quasi jazzistico. Lo stesso accade per gli altri personaggi, in particolare per Gary (interpretato dall'intenso Tye Sheridan, già figlio di Brad Pitt in The Tree of Life) e per il suo problematico genitore, un vagabondo alcolista capace di gesti di indicibile crudeltà, interpretato dal defunto Gary Poulter.

Un thriller dell'anima dall'andamento jazzistico

Quello dipinto in Joe è un universo feroce, fatto di sangue, miseria e violenza. Per descriverlo con efficacia il regista non esita a sporcarsi le mani soffermandosi a lungo su dettagli brutali e raccapriccianti. Per non smentirsi, i pochi momenti in cui lo humor ha la meglio sul dramma sono quelli che vedono l'istrionico Cage misurarsi con cani assassini e prostitute. Lo spettatore affonda lentamente nella melma della periferia povera e disperata, risucchiato verso l'ineluttabile finale. Pur suscitando sentimenti contrastanti, il regista evita di indulgere nel pietismo verso i suoi miserabili personaggi e lascia che sia il pubblico a sintonizzarsi con l'opera nel modo adeguato. Nella prima parte questo compito risulta più difficoltoso, però man mano che la storia decolla appare chiaro l'intento di un autore che ha deciso di mettersi alla prova fino in fondo evitando facili scorciatoie, anche a costo di attirarsi le critiche dei puristi. In questo coacervo di tensioni e violenza si sottolinea l'efficacia delle musiche composte, come nel caso di Prince Avalanche, dall'amico fraterno di Green, il compositore David Wingo, ma usate con maggior parsimonia rispetto al precedente lavoro proprio per evitare di enfatizzare artificiosamente i momenti più drammatici del lavoro.

Conclusioni

David Gordon Green si mette alla prova con un'opera complessa, dall'andamento sincopato e dalla narrazione ben poco fluida, per mostrare uno spaccato di quel white trash che affolla le periferie povere americane. Tra momenti lirici e violenza grafica, Nicolas Cage torna a interpretare un personaggio maturo che mette in mostra le sue doti attoriali.

Movieplayer.it

4.0/5