Recensione Borat - Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan (2006)

Girato a basso budget e con uno stile da documentario-verità con camera a spalla, Borat unisce l'irresistibile comicità della slapstick comedy alla travolgente satira politica senza censura.

Razzismo U.S.A. e getta

Arriva finalmente anche in Italia il fenomeno Borat Sagdiyev, reporter kazako d'assalto nato dal genio della star televisiva inglese Sacha Baron Cohen, noto al grande pubblico come Ali G, altro bizzarro personaggio da lui creato ed interpretato, e divenuto in poco tempo una celebrità mondiale che annovera tra i suoi fan nientemeno che la popstar Madonna e, quando era ancora in vita, la Regina madre. Dopo aver portato sul grande schermo, nel 2002, il suo personaggio più famoso, nel dimenticabile Ali G Indahouse, ora è la volta della sua nuova, esilarante creatura, Borat, voce assurda e acuta del Terzo mondo capace di feroce razzismo stemperato da un'estrema e cristallina ingenuità. E, a differenza del precedente film di Baron Cohen, stavolta si ride e tanto, grazie alla geniale opera di dissacrazione del bigottismo americano, fatta con le armi dello humor più scorretto e volgare possibile, ma per una volta intelligente e senza compromessi. Finalmente, ci si diverte senza prendersi troppo sul serio, si ride di gusto di tragedie maneggiate sempre con i guanti, perché, per una volta, in un mondo serioso che si affanna per far trionfare il politically correct ad ogni costo, è davvero liberatorio farsi una sana risata fuori dal coro.

Il film, diretto da Larry Charles e prodotto dal regista-culto di Austin Powers, Jay Roach, è una sorta di esagerato mockumentary scandalosamente realistico, un finto viaggio-inchiesta, commissionato dalla (gloriosa) nazione del Kazakistan, in cui si narra l'epico errare del reporter Borat nella terra statunitense, alla scoperta di usi e costumi del popolo americano, per poterne copiare le idee più brillanti e immettersi sulla strada dello sviluppo di matrice a stelle e strisce. Lo spirito ingenuamente dissacratorio della star Borat, un vero e proprio totem del suo paese, personaggio di finzione, eppure sbalorditivamente credibile nel suo essere continuamente sopra le righe con naturalezza, viene così a contatto, nella Grande Mela, con persone reali che si trovano a dover fare i conti con il suo primitivo bisogno di contatto fisico e con le sue idee razziste, misogine, antisemite e via discorrendo. Ed è incredibile come queste stesse persone, che si scandalizzano per i suoi modi di fare e per quelle idee espresse in modo colorito e sboccato, risultino, a conti fatti, ancora più razziste e moralmente ignobili del protagonista. Solo che lo squallore delle loro convinzioni è desolantemente reale. Per fortuna, però, Borat interromperà l'idea del documentario sui favolosi americani quando, guardando la tv, s'imbatterà in un episodio di Baywatch, riconoscendo nelle curve di Pamela Anderson l'oggetto ultimo dei suoi desideri. S'imbarcherà quindi in un viaggio attraverso gli States con un unico scopo: raggiungere e conquistare la formosa bionda che gli ha stregato il cuore.

Borat, girato a basso budget e con uno stile da documentario-verità con camera a spalla, unisce l'irresistibile comicità della slapstick comedy al fascino sempreverde della candid camera, le gustose performance ormai rodate del trash televisivo più sopraffino all'umorismo da caserma delle barzellette più sboccate e alla travolgente satira politica senza censura. E ce n'è per tutti: donne, neri, ebrei, obesi, fanatici cristiani, omosessuali, zingari, presidenti guerrafondai, ma, soprattutto, ad essere messo alla berlina è l'illuminato popolo americano, con le sue contraddizioni e le idee da era primitiva. Borat ci restituisce con grande acume quel reale american way of thinking che il più delle volte resta sommerso dietro gli inoppugnabili sorrisi di circostanza, esasperando l'arrogante dottrina neo-cons che sta dietro tutti i discorsi dell'invincibile Bush. Splendidamente interpretato dal bravissimo Sacha Baron Cohen, Borat è una delizia trash, ma con materia grigia, diventata ormai già cult, una gustosa summa del mito Baron Cohen lanciato verso il successo planetario, un'opera dissonante e pericolosamente esilarante, che forse non riesce a mantenere un ritmo incalzante e la battuta sempre brillante per tutta la sua (pur breve) durata, ma sa far divertire con gusto e disgusto, deridendo con spietato cinismo, ma in fondo anche con grande affetto, l'indispensabile America.