Recensione Tatarak (2008)

Il film di Wajda si propone come riflessione sentita sulla morte, sulla malattia e sul modo in cui ci si rapporta ad essa, nonché sulla giovinezza e sulle tragedie che possono coinvolgerla.

Raccontare la morte

Edward Klosinski è stato un importante direttore della fotografia che ha collaborato con alcuni dei più grandi registi, da Krzysztof Kieslowski a Lars Von Trier. A lui è dedicato Tatarak, ultima fatica di Andrzej Wajda, presentato in concorso al 59. Festival di Berlino. In esso si raccontano le ultime settimane della sua vita, attraverso la ricostruzione di sua moglie Krystyna Janda, impegnata in un duplice ruolo che la mette alla prova nell'elaborazione del lutto, non solo quello del marito perduto il 5 gennaio 2008, ma anche quello finzionale della sua controparte da attrice. Tatarak si propone quindi come riflessione sentita sulla morte, sulla malattia e sul modo in cui ci si rapporta ad essa, nonché sulla giovinezza e sulle tragedie che possono coinvolgerla.

L'impostazione metacinematografica della pellicola si esprime sul doppio binario realtà/finzione che Wajda percorre sposando due differenti stili. Da una parte c'è Krystyna Janda nella penombra di una stanza nella quale sono presenti solo un letto, una sedia e una valigia. L'attrice interpreta sé stessa e sotto l'occhio della camera fissa racconta le battute finali della malattia, il cancro ai polmoni, che si è mangiata il marito Edward. Dall'altra parte c'è il personaggio Marta impegnata in uno straniante confronto, ispirato da un romanzo di Jaroslaw Iwaszkiewicz, con una giovinezza sfiorita troppo presto: quella dei suoi figli morti nella Seconda Guerra Mondiale, e quella di un ragazzo che pare subire il suo fascino e si lascia aprire le porte della sua biblioteca e del suo cuore, ma che nel tentativo di nuotare verso di lei troverà una fine precoce.
Quello di Wajda è un film ostico, che per buona parte volta le spalle allo spettatore (basti pensare alla Janda che nei suoi lunghi monologhi offre alla telecamera solo il suo profilo o la sua schiena) e quando esce allo scoperto si ritrova in un paesaggio bucolico, dove la finzione imbastisce situazioni di una noia castrante. Wajda fa la spola tra la testimonianza sincera di una donna costretta a confrontarsi col dolore della perdita e la macchina-cinema che le propone una fuga dalla realtà che richiede però in cambio un certo equilibrio per non lasciarsi travolgere dal precipitare degli eventi. Il regista rivela subito i suoi trucchi, fatica a trovare egli stesso un equilibrio tra i fattori in campo e il film finisce col risultare punitivo, incapace di raccontare con trasporto quei drammi coi quali siamo costretti tutti a convivere.