Recensione Il vento del perdono (2005)

In una fattoria del Wyoming, quattro persone si ritrovano insieme a condividere rancori, paura e voglia di ricominciare. Attraverso la difficile via del perdono recupereranno la fiducia nel futuro.

Perdonare è continuare a vivere

Jean (Jennifer Lopez) e sua figlia Griff fuggono da una difficile situazione di abuso familiare. Alla ricerca di una nuova sistemazione, Jean decide alla fine di rivolgersi a Einer (Robert Redford) il padre del suo defunto marito, che la piccola Griff non ha mai conosciuto. Einer vive col suo amico Mitch (Morgan Freeman), insieme al quale manda avanti una fattoria nel Wyoming. Mitch è tormentato nel fisico e nella psiche dalle profonde ferite infertegli da un grizzly, Einer si strugge nel ricordo del figlio perso quando era ancora giovane, individuando nella nuora un capro espiatorio.

Questo atipico melodramma western di Lasse Hallström relega l'amore (tutto ha inizio dalla drammatica storia di Jean e Griffin, il figlio di Einer) sullo sfondo, esaltando il tema del perdono, che tenta faticosamente di declinare in varie versioni.
La piccola Griff ha un'intera adolescenza da perdonare alla madre, colpevole di non aver saputo reagire alla frustrazione causata dalla perdita dell'amato, e di averla costretta a una vita di incertezze e precarietà affettive, priva di soddisfazioni e di ambizioni.
Einer non riesce a perdonarsi di essere sopravvissuto a suo figlio e si autopunisce con la solitudine e il rancore verso ciò che lo circonda. Alla comparsa della nuora le vecchie ferite si riacutizzano e il dolore prende la forma della rabbia, indirizzata verso chi ritiene, a torto, la causa del suo lutto.
A sua volta si ritiene colpevole del terribile incidente capitato al suo aiutante, ossessionato da un incontro avvenuto tempo prima con un orso grigio del quale conserva ancora i dolorosi segni, e si dedica pazientemente a curarlo, giorno dopo giorno, con metodica costanza.
Da parte sua Mitch sente che solo rielaborando il suo incontro con la bestia alla luce del perdono riuscirà a superare, fisicamente e psicologicamente il suo grave trauma.

E' evidente come accostare il perdono di un uomo per la morte del figlio al perdono di un altro uomo nei confronti di un orso sia operazione a forte rischio di ridicolo. Cosa che, puntualmente si verifica. Morgan Freeman sfoggia la sua vasta gamma di espressioni abbacchiate (chi si ricorda di averlo mai visto sorridere senza almeno un velo di malinconia?) in un improbabile delirio panico naturalistico che ci si guarda bene dal giustificare. Come possa un bovaro del Wyoming orientare in tal modo le propre ossessioni è arduo da capire. Mitch è nero, quindi per definizione umile - chi sia il "padrone" non è mai in discussione, malgrado i due si scambino pacche amichevoli sulle spalle e si sfottano con giovialità - capace al più di una saggezza pratica e banale, calmo, giudizioso, la battuta salace sempre pronta a bacchettare i difetti dell'altro. Se la tristezza di Einer ha un inizio ben determinato, gli occhi molli di Mitch si inumidiscono in una recondita condizione di rassegnazione esistenziale. Un padrone bianco che cura benevolmente le ferite di un "aiutante" nero con ripetuti lavacri dall'aspetto simbolico sa già molto di croce espiatoria; la cosa diventa insopportabile quando è lo stesso Mitch a rivelarci di saper bene che le assidue cure dell'altro sono conseguenza anche di un senso di colpa irrisolto nei suoi confronti.

La sceneggiatura, d'altronde, ci regala altri numerosi esempi di eclatante incredibilità: la piccola Griffin, appena sfuggita alla violenza e al disagio della casa del compagno della madre, ci mette circa due giorni a capire che il terribile orco che confina lei e la madre in uno scantinato polveroso è in realtà una pasta d'uomo. Le basta una colazione al bar e l'essere lasciata da sola ad assistere un vecchio coperto di piaghe. La madre, dal canto suo, crede bene di alleviare l'umore rivolgendo sfacciate attenzioni sessuali verso il primo venuto e andandosene subito dopo di casa sbattendo la porta, incapace di sopportare oltre le ire del suocero (che a quel punto appaiono più che comprensibili) e abbandonando la figlia.

Nel frattempo si susseguono momenti francamente esilaranti: per sottolineare l'irreparabilità del dolore per la perdita di figlio, la si accosta nientemeno che al disappunto che Einer prova nel vedere la suocera rompere un piatto, un piatto a cui teneva molto e che non potrà più riavere, perché "non tutto si puo' rimpiazzare"; Einer, il vecchio triste e malinconico che picchia due bifolchi cowboy come fossimo in un saloon del vecchio west, Einer che va a liberare un orso feroce dalla gabbia portandosi dietro come aiutante - al volante del pick-up - la nipote adolescente, Einer che si improvvisa detective dall'occhio aguzzo esaminando cicche di sigaretta lasciate in giro a bella posta durante appostamenti assolutamente gratuiti.
Ci sarebbe da consolarsi con i magnifici paesaggi, con le vedute nebbiose dei boschi e delle valli, con le bestie che corrono selvagge, ma la mesta mano di Hallström è incapace persino di attingere a un repertorio così consolidato, incerta e traballante - mai un guizzo, mai un'idea che sappia anche lontanamente di regia - fino al più telefonato dei finali.

Cosa rimane da salvare? La bella prova della giovane Becca Gardner, tenera e maschiaccia al tempo stesso, capace di passare da una giocosa fiducia alla rabbia malinconica nella stessa inquadratura, a piacimento. Nulla puo' invece la pur dignitosa Jennifer Lopez che pure si sforza nell'evidente tentativo di dare dignità scenica al suo squinternato personaggio.