Orlando, la recensione: scoprirsi nonno per conoscere il mondo

La recensione di Orlando, nuovo film di Daniele Vicari presentato al Torino Film Festival, dove l'incontro tra un nonno e una nipote riesce a mostrare lo scarto tra due generazioni apparentemente incomunicabili tra loro.

Orlando, la recensione: scoprirsi nonno per conoscere il mondo

Si dice che diventando nonni si ritorna magicamente bambini. Ma Orlando è solo un anziano di paese; nel cortile un orto e nelle gabbie tante galline. Per testardaggine, o per orgoglio, dopo aver perso il ruolo di padre, non credeva, o forse non pensava, di diventare nonno. Eppure, a tremila chilometri, in una metropoli come Bruxelles, nonno ci è diventato per davvero, senza saperlo. E così, basta una chiamata al bar del paesino e tutto cambia, i segreti si rivelano e da unità inscindibile, il vecchio Orlando si ritrova a vivere per due: non più uomo scorbutico, ora è padre, nonno, e bambino da salvare sotto chilometri di incomprensioni e sentimenti sottratti, ignorati, lacerati.

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Orlando: Michel Placido in una foto del film

Come sottolineeremo in questa recensione di Orlando, il nuovo film di Daniele Vicari è una carezza appena suggerita, un tocco leggero di chi sta reimparando a vivere al ritmo di due cuori, in un mondo straniero con una nipote sconosciuta. È la storia di due gradi di separazione pronti a conoscersi, avvicinarsi, studiarsi per apprendere di nuovo a condividere l'amore e un sentimento di famiglia che rischia di frantumarsi come terra appena zappata.

Orlando: la trama

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Orlando: Michele Placido in una foto dal set

Orlando vive solo in un paese del centro Italia e da lì non si è mai voluto spostare, a differenza di quanto fatto da suo figlio 20 anni prima trasferendosi a Bruxelles. Proprio quel figlio sta adesso male; glielo comunica una telefonata dal Belgio. Orlando è così costretto per la prima volta nella sua vita a partire. Quando arriva scopre di avere una nipote di 12 anni. Messi insieme i due sono quanto di più lontano si possa immaginare, ma scopriranno inaspettatamente di avere bisogno l'uno dell'altro. Nonostante siano distanti come possono esserlo la vita rurale in un piccolo borgo dell'entroterra e quella metropolitana di una grande città europea, cercano di farcela, di cavarsela. Lui è il simbolo di un passato che non passa e lei della generazione "Greta Tumberg", pronta a costruire un mondo nuovo ma di cui nessuno sa davvero cosa possa essere.

Vivere tra le pause

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Orlando: Michel Placido in una scena

È un film che vive tra le pause, Orlando. Un'opera, quella di Daniele Vicari, che non corre, non esplode, ma prende corpo nello spazio delle azioni. Una parentesi in formato cinematografico di un'esistenza in sospensione nell'attesa di ritrovare quel coraggio necessario affinché qualcuno o qualcosa possa finalmente toccare il tasto "play" e riprendere a vivere. Quel dito ha un corpo e un volto per Orlando: è Lyse, la nipote di dodici anni che rimette in gioco una pellicola messa in pausa per troppo tempo e per questo scolorita, danneggiata, bloccata in una visione anacronistica della vita senza possibilità di remake, ma solo di un lento aggiornamento di sistema.

Grandangoli d'insieme

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Orlando: Michel Placido durante una scena del film

Non è facile lasciare "il paese" per chi in quell'orto ha seminato anche le proprie radici. Bruxelles è così lontano, così diverso da quel grembo paesano che Orlando si sente spaesato, disorientato, fuori luogo. Una sensazione di disagio che Daniele Vicari rende reale, tangibile e condivisibile semplicemente con una macchina da presa e una lente grandangolo. Nello spazio di un viaggio in treno ecco allora costruirsi un conflitto visivo dove i campi lunghi di un uomo perfettamente in simbiosi con il proprio paese, lascia spazio a primi piani distorti, e figure mostruose, che si aggirano tra le vie della capitale belga a testa bassa, ignorando piuttosto che farsi parte integrante di un mondo così abituato ad accogliere e ora abiurato. Non più e soltanto testimone privilegiato, la regia di Vicari si fa traduttrice visiva di un'interiorità silente. Non parla, Orlando; ascolta, ma non comprende; guarda, ma non apprezza il mondo che lo circonda: uno scarto ossimorico che la macchina da presa coglie e restituisce nel linguaggio visivo di un conflitto costante, che affligge e segna un affetto famigliare pronto a nascere e bruciare, come un incendio indomabile.

La straordinarietà dell'essere ordinario

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Orlando: Michel Placido in una scena del film

In Orlando nulla sembra accadere, quando in realtà ciò che scorre tra i raccordi di un montaggio elegantemente commovente, è uno squarcio papabile di vita verosimilmente vissuta. Quella di Orlando si eleva pertanto a un'ordinarietà straordinaria di un uomo che si lascia alle spalle un agognato ritorno a casa per trovare un alloggio all'ombra di una nipote "monella", ma sempre più indispensabile all'anima e al cuore. Scorbutico, misantropo, tradizionalista, a tratti un po' razzista: Orlando incamera e incarna tutti gli stereotipi del contadino anziano, poco istruito e figlio del proprio tempo. Contenitore di valori e pensieri superati, in lui confluisce un retaggio ancestrale pronto a sgorgare in una volgata popolare di un accento marcato, ora fattosi elemento rivelatorio di un'appartenenza sociale umile, contadina, di chi si sporca le mani e chiude la bocca. I protagonisti di Orlando sono allora personaggi forgiati nel sacro fuoco di una quotidianità possibile. Istantanea cinematografica sviluppata dalla pellicola del realismo, Orlando vive del cuore di un Michele Placido che si sveste della propria personalità per restituirne una ex-novo contornando la complessità di un uomo come il suo Orlando; discorso analogo per una sorprendente Angelica Kazankova, la cui Lyse pare essere presa in prestito direttamente dal nostro mondo per inserirsi tra le cornici di un universo filmico improntato sulla forza degli opposti: una visione ribaltata di una Heidi contemporanea dall'animo umano, e un corpo tangibile, toccante, reale.

Illuminarsi di immenso

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Orlando: una foto dal set

Quello da cui proviene Orlando è un universo colorato e abbagliante, del tutto opposto a quello che lo avvolge a Bruxelles: fuligginoso, nebbioso, investito da lingue di ombre profonde. Il mondo che circonda il protagonista in questa nuova avventura è un'ombra perpetua che gli impedisce di carpire la bellezza di ciò che lo circonda per sentirsi così parte di un qualcosa che non riesce (o non vuole) vedere nitidamente. Non c'è luce per chi non si sente a casa e Orlando è un uomo gettato nella nebbia della resistenza e del rigetto emotivo di una contemporaneità sconosciuta e incomprensibile.

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Locandina di Orlando

Ma senza luce il corpo si raffredda, il cuore si congela e la mente si adombra: Lyse non è subito luce per il nonno. È un fascio luminoso inizialmente timido, ma pronto a evolversi in tiepido raggio e infine in sole abbacinante: un'evoluzione colta e restituita in maniera implicita da Vicari, attraverso una fotografia sempre più abbagliante e meno nebulosa; una fotografia dove le ombre si diramano e i contrasti si fanno meno netti. Ma anche il sole può tornare presto a nascondersi dietro coltri di nuvole, bagnandosi di tempesta; e così, anche la vita di Orlando e Lyse è un gioco di disequilibri pronto a scardinare il settaggio iniziale, ribaltando di nuovo tutto per ripartire ancora una volta da zero. Un braccio di ferro che Vicari riesce a tradurre egregiamente in linguaggio visivo, sebbene cada spesso e volentieri in una reiterazione di medesimi eventi che finiscono per dilatare una durata inutilmente eccessiva. Proprio per la preziosità interpersonale racchiusa negli inframezzi dei suoi raccordi, ripetere certi momenti, o certi scontri, rischia infatti di impoverire tale ricchezza, svalutandone il valore iniziale.

È una macchina da cucire che tesse un legame di parentela che fatica a formarsi, Orlando. Come in una tarantella, Orlando e Lyse hanno imparato a danzare a piccoli saltelli, così da avvicinarsi a poco a poco, l'uno all'altra; ma lo scarto tra i due è talmente tanto che li disorienta, facendo perdere loro il ritmo. Nonno e nipote non sono più andati a tempo, si sono allontanati fino a cadere, toccare terra, per poi rialzarsi di nuovo, mano nella mano, occhi negli occhi, mentre la musica continua a suonare cullandoli in un abbraccio eterno e talmente potente da fermare un traffico e con esso, lo scorrere di una giornata.

Conclusioni

Concludiamo questa recensione di Orlando, sottolineando come il film di Daniele Vicari si fa carezza leggera di un rapporto in evoluzione tra un uomo solitario e una nipote sconosciuta in una terra straniera. Un gioco di ribaltamenti e contrasti che il regista tesse con eleganza e umana sensibilità, abbigliando tutto di quel disorientamento tipico di un uomo che conosce il mondo là fuori attraverso gli occhi e il corpo della propria nipote.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
3.5/5

Perché ci piace

  • Le performance di attori perfettamente in parte.
  • L'uso empatico della fotografia.
  • L'umanità che traspare da un racconto straordinario nella sua ordinarietà.

Cosa non va

  • La reiterazione di certi eventi o scontri.
  • L'uso del grandangolo anche quando non necessario.