Non credo in niente, la recensione: se la notte di Roma diventa un film lunatico

La recensione di Non credo in niente: i contrasti, l'estetica, un paninaro e l'ora più buia di una generazione disillusa. Ecco com'è film d'esordio di Alessandro Marzullo.

Non credo in niente, la recensione: se la notte di Roma diventa un film lunatico

Dobbiamo prendere le misure per raccontarvi cosa sia, davvero, Non credo in niente. Dobbiamo fare il giro largo, come quando c'è traffico sulla Tangenziale Est, e allora meglio passare dentro San Lorenzo, stando attenti alla ZTL. Perché l'esordio alla regia di Alessandro Marzullo è materiale da maneggiare con cura, come un panino con la salsiccia, alle 3 di mattina, divorato dallo "zozzone" di Porta Maggiore (pura estasi, altro che chef stellati!). Riferimenti non casuali, perché la scrittura del film sembra nascere seguendo il flusso emotivo, incostante e analogico delle notti romane. Quelle notti senza faccia, tutte uguali eppure diverse, risolutive nella loro effimera filosofia di vita. Lo spunto, per l'interessante film del modenese Marzullo, è quindi palese: gioca d'estetica, di rumori, di concetti estremizzati, e poi rivisti tramite lo sguardo fulgido di un ragazzo fuorisede, arrivato nella Suburra per studiare, restando naturalmente ammaliato dal suo fascino eterno, sporco, crepuscolare.

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Non credo in niente: una scena del film

Non credo in niente, allora, girato in meno di quindici giorni, è esplosivo nella sua smaccata "piacioneria", che funziona nell'evoluzione attrattiva dei personaggi, inseriti in una sorta d'acquario senza acqua (concetto che torna, nel film, quello dell'acquario e dei pesci). Per riassumere, e aprendo la recensione, Non credo in niente è l'emblema del cinema postmoderno declinato da un'esordiente che dimostra già dimestichezza e padronanza (perché la bravura è bravura, non conta l'età), giocando di guizzi e seguendo la voglia sacrosanta di dimostrare, di esserci. Tra i palesi pregi, le suggestioni e l'immancabile eccesso di mano, che porta a bucare il foglio (anzi, la pellicola) con un tratto deciso ma forse troppo calcato.

Non credo in niente, un flusso che segue le notti romane

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Non credo in niente: un momento del film

Personaggi strani, dimenticati, gaglioffi, pirati, fantasmi. Roma di notte e una generazione a pezzi, in balia delle attese, del talento represso, dei sogni masticati fino al vomito. Un quadro estroso, che pare evanescente, quasi espressionista, in un inizio che non può non lasciare spiazzati. Le immagini distorte, allungate, i primi piani che si fanno mostruosi, repellenti. Poco a poco, però, la schizofrenia voluta di Non credo in niente diventa un percorso strutturato e legato ad un racconto corale, facendo sfrigolare i protagonisti senza mai farli incontrare. O quasi. Perché l'unico punto in comune che hanno è un paninaro dalla filosofia spicciola (Lorenzo Lazzarini), che tiene la verità sul bancone, accomunando Mozart alla salsa tartara.

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Non credo in niente: una foto

Ecco una hostess, interpretata da Demetra Bellina, alla ricerca di un definitivo pied-à-terre; c'è un aspirante attore, chiamato Centocelle (che meraviglia!), con il volto di Giuseppe Cristiano; e ci sono Cara e Jonio, coppia di musicisti ma anche coppia di lavoratori sfruttati (tutto a nero, si intende) in una cucina di un ristorante (sono Renata Malinconico e Mario Russo). Attorno a loro, e alle loro storie, il buio della notte che non conosce fine, illuminato da un neon ronzante. Niente romanticismo, però, solo la schiva abitudine di una vita da inventare.

Cinema libero, grande estetica, le ansie dei trentenni

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Non credo in niente: un'immagine

Dietro la fitta coltre fumosa, che dichiara subito di non concedere punti di riferimento, facendoci avanzare quasi ad occhi chiusi, Alessandro Marzullo salta nel buio - senza mollare mai i suoi personaggi - traducendo ansie, paure e psicodrammi dei trentenni contemporanei, ritenuti troppo giovani ma già ampiamente scaduti. Chiusi tra l'ingombro di due generazioni egocentriche e la consapevolezza drammatica di aver finito il tempo a disposizione. Un'unione di intenti, e la cornice che prende il sopravvento, indirizzando la scena, i toni, gli umori. A proposito: sarà anche "piaciona", ma è irresistibile la sensazione grezza data dalle sporcature della pellicola, stropicciata e sviluppata prima del dovuto (anche perché dietro c'è un'idea estetica).

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Non credo in niente: una sequenza

Una sensazione onirica, straniante, incredibilmente efficace nel tradurre la notte di Roma (l'enfasi già nel pronunciarla), resa tangibile dalla fotografia di Kacper Zieba (quanto è vero che gli slavi sanno "ascoltare" le immagini) e dalla musica di Riccardo Amorese, vera protagonista narrativa e non mero orpello. Ecco, è indubbio che Alessandro Marzullo ci sappia fare, pur portando all'eccesso una storyline probabilmente troppo allungata, che avrebbe dovuto asciugare per tempo. Poco importa, verrebbe da dire. Poco importa perché Non credo in niente, fin dal titolo, dimostra lo stato dell'arte del cinema collaterale italiano, libero dagli schemi, slanciato nella produzione, eterogeneo nella visione influenzata irrimediabilmente dagli autori indipendenti (e qui ritroviamo, con le dovute proporzioni, Wong Kar Wai, John Cassavetes, i Safdie Brothers), nonché agganciata al bisogno di lasciare il segno. Agendo su più piani, vivendo di contrasti, di dissonanze, di frugali imprevisti.

Conclusioni

Alessandro Marzullo ci sa fare, e lo dimostra - pur esagerando forse nella durata, in relazione al racconto - in Non credo in niente. Come scritto nella nostra recensione, il film gioca sull'estetica, sul rumore, sul blu delle notti romane, tramutando in cinema sgraziato e urbano i sogni di una generazione a pezzi. A suo modo riuscito.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
4.8/5

Perché ci piace

  • L'estetica.
  • Roma, e la notte di Roma.
  • I protagonisti, tutti bravi.
  • La colonna sonora.

Cosa non va

  • Forse troppo lungo, in relazione alla narrazione.
  • La prima parte un po' confusa.