Nome di donna: una, cento, mille Nina

Marco Tullio Giordana dirige Cristiana Capotondi nel suo ruolo più riuscito ed equilibrato. Una storia di abusi nata da un soggetto di Cristiana Mainardi e risalente a molti anni prima del caso Weinstein.

Non ama essere chiamato maestro, ma è innegabile che Marco Tullio Giordana sia un grande narratore, un abile pittore di spaccati sociali e politici del nostro paese. Da Pasolini - Un delitto italiano (1995) a I cento passi (2000), La meglio gioventù (2003) e Romanzo di una strage solo per citare i più rappresentativi, potremmo definire la sua filmografia un romanzo a capitoli, che l'appassionato cantastorie milanese si prepara ad arricchire con un nuovo episodio: Nome di donna, film che rompe un tabù e per la prima volta costringe il cinema italiano a raccontare senza filtri le storture dell'ennesima storia di molestie nei confronti di una donna sul posto di lavoro.

Nome di donna: una scena del film
Nome di donna: una scena del film

Cinema di impegno civile che parte da lontano: Nome di donna infatti arriva molto prima del movimento #MeToo e del caso Weinstein, per rintracciarne l'atto di nascita bisogna andare indietro di almeno tre anni quando il tema delle molestie non era ancora lo tsunami mediatico che è diventato e la giornalista Cristiana Mainardi decideva di presentare il soggetto al regista.
Furono anni di ricerca e scrittura, un minuzioso lavoro di ascolto per entrare nella quotidianità delle migliaia di donne vittime di violenza sui luoghi di lavoro.

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Una storia 'vera'

Nome di donna: Cristiana Capotondi e Adriana Asti in una scena del film
Nome di donna: Cristiana Capotondi e Adriana Asti in una scena del film

Il risultato è una storia emblematica, che in sé racchiude le migliaia di voci di un esercito di combattenti silenziose, una vicenda che si ispira a un fatto realmente accaduto e che ruota attorno al personaggio di Nina (Cristiana Capotondi), ragazza madre che fa l'inserviente in una residenza di lusso per anziani facoltosi nella campagna brianzola. Il lavoro per Nina è un mezzo necessario a provvedere al mantenimento della propria famiglia (lei e sua figlia) oltre che uno strumento per rivendicare la propria indipendenza, ma diventerà anche il luogo degli abusi e dei ricatti da parte del direttore d'azienda (Valerio Binasco) spalleggiato da un uomo di Chiesa (Bebo Storti), che ha il compito di insabbiare, tacere, silenziare ogni possibile tentativo di ribellione.

Nome di donna: Valerio Binasco in una scena del film
Nome di donna: Valerio Binasco in una scena del film

Giordana sfodera la sua arte di scaltro direttore d'orchestra e usa la punteggiatura che gli è propria: ellissi, asciuttezza, equilibrio, verità. Il film risponde a un'urgenza, il regista lo sa bene ed evita la faciloneria dei cliché che ridurrebbe la battaglia di Nina ad una manicheistica lotta fra donne buone e uomini cattivi, fanciulle indifese da un lato e orchi dall'altro: tutto in scena si regge sull'ambiguità e sull'ampio ventaglio di sfumature dei personaggi.
Giordana si sofferma sulla determinazione della protagonista più che sulle sue fragilità, privilegia la sua caparbia ostinazione più che i tentennamenti che pure la caratterizzano: "Ho paura di fare qualcosa e ho paura di non fare niente", dirà infatti quando dovrà decidere se denunciare o meno il proprio datore di lavoro.
Battagliera, caparbia quanto basta per dare spallate che le costeranno caro, persino l'isolamento da parte delle proprie colleghe zittite dalla paura, Nina diventa il simbolo del femminismo moderno: non solo attrici e modelle, a urlare qui sono semplici operaie.
È proprio nella disarmante normalità della vicenda che il film trova la giusta forza per veicolare un messaggio chiaro: il fenomeno delle molestie è trasversale e colpisce qualsiasi ambiente sociale.

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Resilienze e prove d'attore

Nome di donna: Cristiana Capotondi in una scena del film
Nome di donna: Cristiana Capotondi in una scena del film

Interpretata con misura e compostezza dalla Capotondi, la protagonista non è diversa dalle figure di 'ribelli' che hanno affollato il cinema di Giordana: combattenti solitari che una picconata dopo l'altra riescono nel nobile intento di abbattere il muro di omertà creato attorno a loro da una società che ha normalizzato storture e soprusi.
E non è la sola a dare prova di un'interpretazione sempre in bilico tra l'oggettività dei fatti e le infinite zone grigie del piano emotivo; emerge distintamente lo sforzo di un lavoro di sottrazione che non ha risparmiato nessuno degli attori: dal disturbante Binasco nei panni del molestatore, allo sgradevole, lucido e calcolatore Don Roberto (Storti) passando per tutte le figure femminili protagoniste della vicenda, ognuna col proprio carico drammatico.

Nome di donna: Cristiana Capotondi e Michela Cescon in una scena del film
Nome di donna: Cristiana Capotondi e Michela Cescon in una scena del film

Menzione a parte merita Adriana Asti nel ruolo di Ines, un'attrice che vive nel ricordo delle sue glorie passate, ospite dell'elegante e idilliaca casa di riposo in cui lavora Nina; basta una manciata di battute concentrate nei pochissimi minuti in cui è in scena, per scuotere, freddare e sollevare questioni oggi all'ordine del giorno nel dibattito, spesso generalizzato, sul tema degli abusi: "Molestie? Una volta li chiamavano complimenti", dirà.
Peccato che Nome di donna paghi però un eccessivo didascalismo rischiando di appiattire tutte le sfumature su cui il regista ha cercato di strutturare l'intera impalcatura del film; l'altro grosso strappo è una parte processuale, quasi da legal drama (tutta retta sulle spalle di Michela Cescon), liquidata in maniera sbrigativa e che forse non avrebbe avuto motivo di esistere. Un film che alla fine della visione ci farà cadere nella retorica dell'opera utile e necessaria.

Movieplayer.it

2.5/5