Recensione Mephisto (1981)

Il film del regista ungherese si pone su molteplici piani di lettura, rendendone difficile un giudizio univoco e pacificante, ma non mostrando cedimenti al passare del tempo

Il controverso capolavoro di Szabò

Film denuncia. Una catalogazione del genere in questi ultimi anni di cinema è entrata prepotentemente nella moda della critica, favorita, d'altra parte, dalla produzione di una serie innumerabile di film dal basso contenuto etico/estetico con un'innata presuntuosa pretesa di catalogare ciò che è sbagliato, riprovevole, inaccettabile nel nostro piccolo grande mondo. E il fagocitarsi di quello che è diventato (quasi) un genere a sé stante non ha fatto altro che alimentare una sottocultura cinematografica di registi e mestieranti che, invece di trasmettere qualcosa attraverso i propri film, rilanciando palla, impressioni e giudizio allo spettatore, hanno cercato di confezionare il classico pacchetto preconfezionato di indignazione e ipocrita commozione patinata.

Un cinema di questo genere ha sempre affascinato gran parte del mainstream statunitense, che ne ha alimentato la proliferazione e, in molti casi, il degrado qualitativo. Non sorprende dunque che sia proprio un film-denuncia quello che nel 1982, in piena epoca reaganiana e in un clima di rinnovata tensione tra le due superpotenze, vinse l'Oscar come miglior film straniero.
Si affermò infatti il Mephisto dell'ungherese Istvàn Szabò, giunto agli onori delle cronache del "cinema che conta" dopo vent'anni dal debutto e una serie di alti e bassi in cui i primi sono in netta predominanza. E, paradossalmente, sono proprio le caratteristiche un po' grossolane di denuncia politica presenti nel film a spingere il film tra le braccia dell'Academy. Che, nei giudizi trapelati dopo il voto, mostrerà di non aver capito fino in fondo tutti gli aspetti di un film sicuramente non perfetto, ma dal respiro ampissimo.

Già la matrice del soggetto si rivela, in qualche modo, d'autore, essendo il film tratto da un libello di Klaus Mann, figlio del celeberrimo Thomas, basato su una vicenda reale. Anche se in effetti il film mostra generosamente i suoi lati deboli.
L'allegoria su cui si incardina è fin troppo evidente e approssimativa. Il motore narrativo così si trova ad essere pesante e poco fluido, facendo perdere brillantezza e spessore a molti passaggi della pellicola, a cominciare dal rapporto di Hofgen con l'amata Juliette, per proseguire e terminare con un'eccessiva schematizzazione e tipizzazione del rapporto con l'autorità, con il Generale. Il giovane attore di provincia che si ritrova a calcare le scene dell'opera di stato del Reich si ritrova a dover fare i conti con altri da sé, rapporti che il film tende a banalizzare e appesantire.

Szabò, che pone con forza (e forse, da qui in poi definitivamente) la sua idea di cinema come generato esclusivamente dallo script, offre il meglio di sé quando fa fecondare le involuzione/evoluzioni dialettiche del suo protagonista (un malleabile e gigione Klaus Maria Brandauer, arrivato alla notorietà proprio grazie a questo film) in una progressione coerente e mai banale del personaggio. L'aspetto dunque di più ostentata denuncia, coadiuvato dal poco sottile raffronto del personaggio faustiano con la vita dell'attore, che costituiscono l'aspetto meno felice della pellicola, vengono contrappuntate dallo splendido controcanto del tormento dell'artista di fronte ai dilemmi artistico-morali che gli si pongono. E che la risultante sia farraginosa e opaca e i risultati brillanti rende il film ancora più controverso e impossibilitato ad un giudizio univoco e pacificato.

Brandauer incarna, in modo eccessivo forse, i tormenti etici del cedimento e della compromissione con il regime, esplicato a chiare lettere nel procedere e ingigantirsi del suo rapporto con "il Generale", Hermann Goering. Un percorso di cedimenti e ripensamenti, guidato dalla lancinante e insolubile domanda se sia più importante l'espressione artistica o il prezzo da pagare per poterla esprimere. E il film, dunque, ad un secondo livello di lettura, sotto la semplicistica metafora del Mephisto "politico", cela e svela allo stesso tempo il tormento e l'estasi di un uomo che arriva a trascendere sé stesso, per arrivarsi a identificare con l'arte di cui si pone come veicolo, ad incarnare un Mephisto "dell'anima", che non cede il passo pur di arrivare alla sua più completa realizzazione, di uomo e di artista, passi ormai coincidenti.
Un film con più piani di lettura dunque, e con una molteplicità di pause e picchi visivo-narrativi che ne rendono complessa la visione e privo di univocità il giudizio, ma che lo consegnano, per i suoi più molteplici aspetti, ad un posto di rispetto nella storia del cinema recente.