Il cinema orientale seduce l'Europa

La Cina vince a Venezia e a Berlino, e non solo. Conquista anno dopo anno il mercato italiano, ed europeo, attraverso un "neorealismo poetico", specchio di una nazione.

L'Oriente da anni fa capolino nei Festival europei, lasciando al suo passaggio piacevoli sorprese. Propone un cinema sempre più di qualità, che aumenta il livello e lo spessore di molte manifestazioni cinematografiche; esempi recentissimi (entrambi cinesi) sono Still Life di Jia Zhang-Ke, vincitore del Leone D'Oro a Venezia, e Tuya's Marriage di Wang Quanan, vincitore del Festival di Berlino.
Jia Zhang-Ke non è un volto nuovo al Lido. Si era già distinto precedentemente, presentando in concorso nel 2000 Zhantai (Platform) e nel 2004 Shijie (Il mondo). Il suo è un ruolo importantissimo nel portare avanti uno sguardo critico sul proprio Paese e sulle ingiustizie che ancora lo affliggono.

L'alternativa orientale presenta generalmente due tipologie distinte di pellicole: quelle sopra le righe, sconcertanti per lo spettatore occidentale, che resta disarmato di fronte ad una tipologia di cinema che proprio non gli appartiene, e quelle che si adoperano per raccontare il reale, o meglio la realtà sociale e politica, toccando e scuotendo la coscienza dello spettatore. E' proprio la seconda tipologia quella più in rilievo nei Festival e che, più in generale, riscuote consensi in Europa.
Still Life, ad esempio, riflette l'immagine di un popolo, è il grido di una nazione che sta affrontando profondi cambiamenti interni. Cambiamenti che stanno stravolgendo una delle culture più antiche del mondo e che vanno ad intaccare quelle tradizioni, usi e costumi, che da sempre sorreggono una società. Il suo stile documentaristico lascia trasparire un realismo magico, da un lato crudo, dall'altro poetico, grazie ad immagini-visioni, frutto di una fantasia alterata.
E' l'emblema di un cinema indipendente, neorealista, che in Cina spesse volte viene offuscato dalla censura di Stato. In Italia e in Europa invece trova spazio, e piace. C'è chi paragona il cinema di Zhang-Ke al nostro Rossellini. Quasi ci fosse una forte nostalgia per quel cinema che un tempo ci ha distinti, e che forse oggi, non si è più in grado di fare.

Est ed Ovest quindi, finalmente s'incontrano. Spesse volte si fondono e si contaminano. E questo è un bene. E' utile una ventata d'aria fresca, soprattutto adesso che la cinematografia d'Occidente è, in alcuni casi, particolarmente stagnante. Il cinema italiano ormai da anni, è ancorato a stereotipi difficili da smontare, che stanno appiattendo le produzioni. E' scomparso il genere, nostro vecchio punto di forza, che ora fa solo timide ricomparse; la commedia poi, non è più l'autentica commedia all'italiana, se non in rari casi. Anche il cinema hollywoodiano sempre più spesso si rivela a corto d'idee, sfornando a raffica remake di film orientali di genere horror (vedi il filone dei vari The Ring).

Alla luce di tutto questo non c'è davvero da meravigliarsi se gli "occhi a mandorla" stanno riscuotendo così tanti consensi, distinguendosi elegantemente. Soprattutto non c'è da stupirsi nel constatare che, all'interno dei Festival, la maggior parte dei film provenienti dalla cinematografia orientale, in particolar modo quelli cinesi, si posizionano nelle sezioni più in vista anziché in quelle minori, aggiudicandosi i premi più prestigiosi.
E' un segnale importante, da non sottovalutare: mette in luce il fatto che, queste pellicole, non sono rivolte più soltanto ad un pubblico di nicchia (finalmente), come quello di un Festival, bensì ad un pubblico allargato.