Recensione La cena per farli conoscere (2006)

Avati riesce a costruire una sceneggiatura che ha il suo punto di forza nella sapiente alternanza di toni, che virano continuamente dalla commedia al dramma e viceversa.

Il cinema dietro gli occhiali da sole

Sandro Lanza, un attore sessantenne dal percorso artistico non certo brillante, tra film di serie B e soap opera, si sottopone ad un intervento estetico per ringiovanire sé stesso e quella carriera che va lentamente spegnendosi. Dall'intervento, però, Lanza esce con lo sguardo sfigurato e la consapevolezza che per questo non tornerà mai più a recitare. Gli resta un gesto estremo, disperato quanto plateale: tentare il suicidio, un'ultima carta giocata più per attirare l'attenzione dei soliti media-cannibali che per una reale intenzione di mettere fine alla propria vita. Corse al capezzale del padre, le tre figlie, avute da tre differenti relazioni e sparse per l'Europa, più o meno abbandonate, decideranno di organizzare una cena per salutare la guarigione di Sandro e per regalargli un ultimo sogno che ha le forme di un'avvenente donna, innamorata di lui da una vita.

Arriva puntuale anche quest'anno il nuovo film di Pupi Avati, prodotto dal fratello Antonio, un'analisi dai toni agrodolci del nostro vivere contemporaneo e un'occasione per riflettere sul cinema e sulla figura dell'attore. Si torna a guardare con nostalgia a quel cinema di serie minore che di recente è stato magicamente riabilitato, tra tributi festivalieri e caimani-coccodrillo morettiani. Diego Abatantuono incarna l'attore potenzialmente grande, ma confinato in uno star system dei poveri e con poche chance di brillare, arruolato in una soap opera qualunque mentre sogna il cinema immortale di Pietro Germi. Avati azzarda qualche forzatura di troppo (come le colpe addossate tutte ad una televisione fasulla, che non si fa scrupoli nell'andare in scena e svelare i suoi artifici e i parrucchini che cadono, che ammazza i talenti nella soap di turno e una volta sfibrati li riaccoglie in reality-fogna) in un discorso che convince soprattutto grazie a quella nostalgia che sta attaccata proprio nello sguardo ormai deturpato dell'attore che non può più lasciarsi guardare e deve rifugiarsi nell'oblio dietro gli occhiali da sole.

Altro tema cardine di questo nuovo film del regista emiliano sono i rapporti tra esseri umani che, nell'epoca attuale, sembrano farsi sempre più inconsistenti. L'essere alienato non trova più un punto di contatto sano con l'altro sesso, prova a starci insieme meccanicamente, ma puntualmente finisce col tradirlo o semplicemente con il detestarlo. Anche il rapporto tra padre e figlie è sbagliato, per via delle colpe di un genitore assente che non ha saputo tenere insieme una famiglia troppo allargata, tra Roma, Madrid e Parigi. Uno scenario catastrofico dove, apparentemente, non si salva nessuno, né la donna vittima, ma arrogante, né l'uomo viscido, ma fragile. Salvo poi sottolineare l'importanza del perdono e l'indispensabilità dei buoni sentimenti, quando tutto sembra essere perduto. Avati riesce a costruire una sceneggiatura che ha il suo punto di forza nella sapiente alternanza di toni, che virano continuamente dalla commedia al dramma e viceversa, ma non sa tenere insieme le troppe storie che mette in tavola, che tratteggiano sì lo spaesamento degli esseri umani in un'epoca globalizzata ed alienante, ma che si perdono totalmente in un'inconsistente parte finale, tra una cena surreale, e fondamentalmente priva di senso, con un'imbarazzante Francesca Neri in pieno delirio, e un finale finto-amaro che si apre alla speranza. Si archivia così un altro film della famiglia Avati, un altro brontolare sui nostri tempi non certo imprescindibile.