Recensione House of the Dead (2003)

Sarete trascinati in un caotico delirio a ritmo di musica techno-metal, privo di capo e di coda, che non vi farà desiderare altro se non uscire dalla sala. Non certo per il terrore.

Giocare con gli zombie

Un rave party con i morti viventi al ritmo di colpi di pistola e pallottole sfreccianti era un'esperienza che il cinema non ci aveva ancora regalato. Il dubbio che sorge è l'improbabile sensazione di sentirne realmente la mancanza.
Ispirato all'omonimo videogame, House of the Dead è una prevedibile commistione di horror già visti e rivisti, privo del benchè minimo spunto creativo, sommerso da sequenze di sangue orgiastiche e di luoghi comuni di genere che non lasciano via di scampo. Il solito gruppo di ragazzi, predestinati a una fine palese dal primo minuto, prende in affitto una barca, il capitano e il mozzo di turno, per raggiungere un'isola dove dovrebbe aver luogo un rave party. Giunti sul posto, fra l'immancabile boscaglia del terrore, le morti misteriose iniziano.

Quando un videogioco è per definizione uno "sparatutto", in cui si deve premere il tasto del joystick a più non posso, distruggendo tutto quello che si incontra, è improbabile che possa dare origine a un film differente. I living dead dopo George A. Romero e Sam Raimi non sono più gli stessi, intrappolati nello stereotipo dei mostri carnefici, del male reale, quasi umano, unione fra carne e immagine. Gli zombie, per definizione spogli da ogni ombra di personalità, assurgono a puri bersagli giocattolo, inconsci di una fine che hanno già raggiunto e, fantocci dalle sembianze decomposte, pullulano l'isola per animare un rave di massacro. A movimentare la vicenda ci pensano un improbabile capitano Kirk (come se una barca malridotta potesse evocare una nave spaziale) il suo mozzo, novello Igor, e una militare apparsa dal nulla, pronta a salvare i nostri da una fine certa. Che la guerra abbia inizio.

Per comprendere una tale follia, l'unica spiegazione è cogliere l'essenza ludica di un game di successo, condito da efferate carneficine di non-morti (quasi un controsenso). La isla de la muerte, una cassa di armi di ogni tipo e una foresta à la Venerdì 13, dovrebbero avvertire gli spettatori già dalle prime sequenze, ma purtroppo, quando questi indizi entrano in scena, è ormai troppo tardi. Sarete trascinati in un caotico delirio a ritmo di musica techno-metal (non proprio da rave), privo di capo e di coda, che non vi farà desiderare altro se non uscire dalla sala. Non certo per il terrore.