Faya Dayi, la recensione: In Etiopia tra i sogni fugaci del khat

La recensione di Faya Dayi, un documentario di Jessica Beshirh, autrice etiope-messicana che torna nei luoghi dell'infanzia tra il dramma e l'onirico.

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Faya Dayi: una foto del film

Sulle montagne dell'Etiopia tra le antiche leggende Sufi e i tumulti socio-politici che continuano a sconquassare il paese, un viaggio in bianco e nero sulle tracce degli effetti psicotropi delle foglie di khat. Un quadro tra l'onirico, i ricordi d'infanzia e i sapori di un'Africa che si perde nel mito: l'esordio alla regia di Jessica Beshir ha il fascino del racconto orale (come leggerete nella recensione di Faya Dayi disponibile su Mubi dal 10 agosto) e la raffinatezza del grande cinema documentario. L'autrice etiope-messicana lo scrive, lo dirige e ne cura anche la fotografia, affidandosi ai primi piani di attori non professionisti: ragazzi presi dalla strada e anziani raccoglitori di khat.

Storia di visioni, sogni e ricordi

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Faya Dayi: una scena del film

Presentato al Sundance Film Festival del 2021, Faya Dayi è una strana creatura che attraverso la voce fuori campo di una narratrice accompagna lo spettatore dall'inizio alla fine in un racconto allucinatorio e transgenerazionale. Ha la forza della preghiera e il potere delle visioni, un'incursione tra il reale e l'immaginifico che riporta la regista Jessica Beshir nella comunità dei contadini Oromo tra gli altopiani di Harar, dove ha trascorso parte della sua vita. Fino a quando appena adolescente fu costretta ad abbandonare il paese, strappata a familiari e amici per sfuggire alle violenze e alle turbolenze politiche di quegli anni durante il regime di Mengistu. Con la sua famiglia si traferì in Messico, e da allora si rese conto che la sensazione di vuoto e solitudine lasciata da quello strappo, andava via via affievolendosi ad ogni viaggio che la riportava in Etiopia.

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Faya Dayi: una foto del film

Faya Dayi, girato nel corso di dieci anni, è stato un modo per riconnettersi al passato e alle memorie dell'infanzia, che spesso acquistano le sembianze di un sogno. Nello stesso tempo è il ritratto del mondo che ha incontrato al suo ritorno a Harar: il lago delle escursioni di bambina completamente prosciugato, la maggior parte degli amici di famiglia esiliati chissà dove, le piantagioni di caffè sostituite quasi interamente da una verde coltre di khat, una pianta locale dalle proprietà eccitanti, un tempo, secondo la leggenda, sacra ai Sufi che la usavano per cercare l'eternità, e oggi invece antidoto alla disperazione.

Sulle tracce del khat, tra strumento di rivolta e via di fuga dal reale

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Faya Dayi: una sequenza del film

La masticano senza sosta i giovani disoccupati per i quali rappresenta l'unica seppur fugace pausa dalle oppressioni quotidiane, una sorta di illusorio stato di grazia (il Merkhana); ne sono assuefatti anche i contadini Oromo, vittime di discriminazioni sistematiche e di una politica di repressione perpetrata per decenni: per loro le foglie di khat rappresenta non solo una via di fuga, ma anche un'attività redditizia che gli permette di sopravvivere. Il documentario si compone di una serie di quadri: il lavoro nei campi, i rituali quotidiani e i sogni di speranza di una vita diversa, magari al di là del Mediterraneo per attraversare il quale basta ben poco: "una giacca pesante e delle scarpe chiuse per il freddo e l'acqua". Il racconto si struttura alternando ricordi e storie ossessionanti, che insieme restituiscono il clima socio-politico dell'Etiopia suggerito non da una narrazione diretta, ma dalla descrizione spesso ipnotica degli ambienti e delle atmosfere generate dal consumo di khat.

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Faya Dayi: un'immagine del film

Faya Dayi si rivela sia viaggio lirico e spirituale, sia dramma quando si concentra sulle storie intime e personali di chi mastica il khat, che è insieme spazio di socializzazione e strumento di rivolta contro secoli di repressioni, l'unico luogo in cui speranze, sogni e aspirazioni hanno diritto d'asilo. È un susseguirsi di volti che raccontano, di pensieri distorti, di aneddoti, di mani che falciano, raccolgono, legano e intrecciano; è poesia per immagini, ma anche un susseguirsi di riflessioni in cui le parole si rincorrono, in bilico tra la realtà suggerita dall'assuefazione e quella evocata dai ricordi. L'importante è affidarsi e lasciarsi accarezzare dalla lentezza del racconto, assaporare i dettagli delle immagini che si dilatano, si stratificano e si offrono all'occhio in tutta la loro genuinità.

Conclusioni

Concludiamo la recensione di Faya Dayi ribadendo la complessità di un’opera profondamente stratificata, non un semplice documentario ma poesia per immagini. La regista accompagna il pubblico nella sua terra natale, l’Etiopia, combinando i ricordi dell’infanzia, le visioni dettate dall’assuefazione delle foglie di khat e i primi piani dei protagonisti. Un viaggio allucinatorio e insieme ritratto della dimensione socio-politica del paese.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
5.0/5

Perché ci piace

  • La forza delle immagini che si dilatano, si stratificano e si offrono all’occhio in tutta la loro genuinità.
  • Un viaggio visionario in bilico tra l’onirico e il reale.
  • La capacità di raccontare la dimensione socio-politica dell’Etiopia attraverso suggestioni, rituali e visioni.

Cosa non va

  • Il tipo di linguaggio adottato, il bianco e nero e la lentezza del racconto potrebbero disattendere lo spettatore abituato al cinema documentario tradizionale.