Elegia americana, recensione: Glenn Close e Amy Adams a caccia di Oscar su Netflix

Recensione di Elegia americana, il nuovo film di Ron Howard, tratto da una storia vera, disponibile su Netflix.

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Elegia Americana: una scena del film con Haley Bennett, Gabriel Baso e Amy Adams

Scrivendo la recensione di Elegia americana, il nuovo film di Ron Howard che arriva direttamente su Netflix (con la solita uscita limitata nelle sale in paesi dove sono attualmente aperte), è impossibile non pensare a quell'evento annuale hollywoodiano che nel 2020 ha preso una piega stranissima: la stagione dei premi, culminante nella notte degli Oscar. Un periodo che solitamente va da settembre (con il debutto di film molto attesi a Venezia, Telluride e/o Toronto) a fine febbraio/inizio marzo (la cerimonia degli Academy Awards), con campagne che occupano intere pagine di riviste di settore come Variety e The Hollywood Reporter. Quest'anno invece tutto ha un sapore diverso, perché per venire incontro a chi è stato travolto professionalmente dalla crisi sanitaria l'Academy ha modificato le date: la cerimonia si terrà il 25 aprile 2021, e saranno ammissibili film usciti entro il 28 febbraio dello stesso anno (l'ultima volta che si è verificato uno scenario simile, con due diversi anni solari in lizza, era nel 1934). E poi c'è la deroga per lo streaming, essendo ammissibili i lungometraggi finiti direttamente sulle piattaforme e altri sistemi on demand, a patto che fosse prevista un'uscita nelle sale.

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Elegia Americana: una scena del film con Amy Adams e Gabriel Basso

Alla luce di tutto questo le classiche considerazioni sui film "da Oscar" sono un po' più complesse, perché molti film attesi devono ancora uscire e quelli già usciti non hanno potuto beneficiare fino in fondo dei classici vantaggi (leggi: il sostegno dei festival). In mezzo a questo oceano di incertezze arriva quindi Elegia americana, che già prima dell'uscita è stato inserito nel discorso premi per un semplice motivo: oltre alla storia vera incentrata sulle condizioni di vita di una certa fetta della popolazione statunitense (da cui il titolo, la cui traduzione italiana è però al contempo fuorviante e perfetta), c'è il fattore recitazione, con due interpreti quali Amy Adams e Glenn Close, due attrici amatissime e note anche per il numero di nomination andate a vuoto finora (sei per la prima e sette per la seconda). E anche se le recensioni americane sono state per lo più negative, come lo furono già per l'autobiografia che ha ispirato il lungometraggio, il duo femminile dovrebbe restare almeno in zona nomination, dato che la qualità del film non è per forza un ostacolo (vedi alla voce Bohemian Rhapsody, ritenuto appena sufficiente da molti addetti ai lavori ma premiato addirittura per uno degli elementi più problematici, il montaggio).

C'era una volta in Ohio

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Elegia Americana: una scena con Glenn Close e Owen Asztalos

La storia si svolge tra il 1997 e il 2011, ed è raccontata dal punto di vista di J.D. Vance (Gabriel Basso), studente di giurisprudenza a Yale e originario di Middletown, nell'Ohio. Una località a cui è legato ma dalla quale al contempo vorrebbe distaccarsi, a causa di un'infanzia e adolescenza non proprio felice: la madre Bev (Amy Adams) è segnata da varie relazioni fallite e un serio problema di tossicodipendenza, il che ai tempi portò J.D. a passare molto più tempo con la nonna Mamaw (Glenn Close), originaria della comunità degli appalachiani nel Kentucky ma rifugiatasi nell'Ohio dopo essere rimasta incinta a tredici anni. Una vita complicata, ben più di quanto J.D. potesse immaginare (a sua insaputa la nonna doveva fare i conti con un marito alcolizzato e violento), le cui conseguenze si fanno vive nel peggior modo possibile quando il giovane ha la possibilità di svoltare e avviare una carriera giuridica di non poco conto: egli ricever infatti una telefonata dalla sorella maggiore (Haley Bennett), la quale lo implora di tornare a casa perché la madre è nuovamente nei guai. Sono circa dieci ore di macchina, e il colloquio di lavoro è fissato per il giorno successivo...

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Elegia artificiosa

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Elegia Americana: una scena con Amy Adams e Owen Asztalos

Il film si basa sulle memorie dello stesso Vance, pubblicate nel 2016 con il titolo Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis. In altre parole, più che un ritratto dell'America intera, come lascerebbe intendere il titolo italiano del lungometraggio, è un'ode a una parte specifica del paese, segnata dalla povertà e dai pregiudizi degli altri (una volta arrivato a Yale, J.D. si scalda quando sente usare la parola redneck). Indirettamente si parla di quella fetta di popolazione che qualche anno dopo gli eventi raccontati avrebbe votato per Donald Trump, e forse quindi, per alcuni, questo si può considerare un ritratto dell'America tutta, o meglio, della "vera" America. Solo che il libro è stato più volte contestato per un approccio un po' disonesto, anche e soprattutto dalla comunità appalachiana le cui esperienze non corrispondono al vissuto di Vance, il quale però cerca di rivendicare i valori del popolo a cui apparteneva sua nonna.

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Elegia Americana: una scena del film con Glenn Close

E proprio come il tomo letterario, anche il lungometraggio di Ron Howard vuole riabilitare l'America rurale, salvo poi scivolare nei luoghi comuni più elementari a livello narrativo e visivo, trasformando quello che poteva essere un ritratto forte di una famiglia in difficoltà in due ore di quello che gli statunitensi chiamano poverty porn, un'operazione artificiosa che non restituisce alcuna dignità ai personaggi mostrati sullo schermo. Non aiuta neanche la contraddizione tra il voler rappresentare una famiglia i cui principali punti di riferimento sono le donne e l'avere al centro un uomo che, suo malgrado, è più volte eletto a salvatore dell'equilibrio domestico. Oltretutto la sua presenza appesantisce notevolmente il film perché, con tutta l'attenzione dedicata alle due principali interpreti femminili, il povero J.D. si ritrova con il materiale meno interessante, e non aiuta lo scarso carisma di Gabriel Basso che, forse penalizzato da quanto a disposizione, non riesce a generare alcuna empatia per il personaggio.

Madre e nonna

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Elegia Americana: Glenn Close in una scena del film

Che dire, a questo punto, di Amy Adams e Glenn Close, che forse non avranno scelto il progetto apposta per puntare alla tanto agognata statuetta ma sicuramente ci danno dentro in tale ottica? La prima, abituata a ruoli simili che richiedono una componente emotiva forte, funziona a intermittenza, costantemente in bilico tra sincerità e caricatura; la seconda, sepolta sotto strati di trucco che la rendono pressoché irriconoscibile (un recensore USA l'ha descritta come "SpongeBob quando si asciuga"), è uno stereotipo ambulante ma, paradossalmente, è il suo impegno totale all'insegna del cliché a renderla l'elemento più memorabile della pellicola, soprattutto quando, tra una sigaretta e l'altra, spiega al giovane nipote che esistono solo tre tipi di persone al mondo: il Terminator buono, quello cattivo e quello neutrale (riflessione nata dall'ennesima visione di Terminator 2 - il giorno del giudizio). E così cominciamo a immaginare un film dove lei prenda il posto di Arnold Schwarzenegger nei panni del celebre cyborg. Un viaggio mentale molto più appagante di quello fisico intrapreso da J.D. per difendere dei valori non propriamente suoi e allungare un brodo alquanto insipido.

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Conclusioni

Chiudiamo la nostra recensione di Elegia americana, uno dei film con cui Netflix spera di poter concorrere agli Oscar. Speranza forse un po' vana in questo caso, al netto dell'impegno di Amy Adams e Glenn Close.

Movieplayer.it
2.0/5
Voto medio
2.7/5

Perché ci piace

  • Glenn Close è memorabile nonostante l'aura caricaturale del suo personaggio.
  • Amy Adams ci si mette d'impegno, per quanto a intermittenza.

Cosa non va

  • Il protagonista maschile è completamente privo di carisma.
  • Il tutto ha un sapore artificioso, costruito su luoghi comuni narrativi e visivi.