Recensione Fast Food Nation (2006)

Linklater riesce a dimostrarsi autore soprattutto nell'imperfezione e dirige un lavoro a basso budget, sincero e sporco, dove il bianco innaturale dell'interno della fabbrica si contrappone al rosso del sangue dei buoi macellati.

Alla scoperta degli orrori del fast food

Per realizzare Fast Food Nation l'indipendente Richard Linklater guarda al maestro Robert Altman e costruisce una pellicola corale ispirata al fortunato saggio di Eric Schlosser sul fenomeno "fast food". Ne viene fuori un pamphlet fictional che unisce il look informale e sfilacciato tipico del documentario alla dispersione dei piani narrativi.
La storia di tre immigrati messicani che entrano clandestinamente negli USA per lavorare in un'enorme industria di lavorazione delle carni del Colorado si mescola all'ispezione del direttore marketing della Mickey's, catena di fast food rivale di McDonald's, in visita alla medesima industria per verificare la qualità della carne, mentre una giovane commessa abbandona il lavoro per unirsi a un gruppo di ambientalisti che progettano di liberare il bestiame destinato al macello.

La pellicola, presentata in concorso a Cannes 2006, ha diviso nettamente la critica, specialmente quella statunitense, attirandosi addosso dure reprimende: chi l'ha tacciata di facile moralismo (in fondo argomenti come il degrado del cibo che ci viene propinato ogni giorno, la manodopera straniera pagata a basso costo, lo sfruttamento delle minoranze, il profitto che passa sopra la salute delle persone e il capitalismo imperante sono quotidianamente sulla bocca di tutti), chi ha accusato il regista di attaccare il suo paese avallando, nello stesso tempo, l'immagine negativa che l'Europa ha degli Stati Uniti, chi semplicemente ha parlato di pellicola non riuscita contrapponendole i ben più incisivi documentari di Michael Moore o Super Size Me. In effetti Fast Food Nation è tutto tranne che un film perfetto: i ritmi sono lenti, la sceneggiatura dispersiva, i personaggi vengono disseminati qua e là nel corso della storia senza che ne siano seguite a fondo le singole vicende (tanto per dirne una il direttore che la fa da protagonista per tutta la prima parte del film a un tratto scompare per poi riapparire brevemente solo nella sequenza conclusiva), a scene incisive e brillanti si alternano momenti di stanca. Eppure, nonostante tutto, il film funziona. Il senso di smarrimento con cui si esce ripropone con efficacia la dimensione superficiale e dispersiva della società contemporanea. Si mostrano i danni del progresso senza dare risposte o soluzioni possibili perché probabilmente non ve ne sono, si tratteggiano personaggi persi ognuno nel proprio mondo di disillusione, senza che sia possibile conoscerli fino in fondo.

Linklater riesce a dimostrarsi autore soprattutto nell'imperfezione e dirige un lavoro a basso budget, sincero e sporco, dove il bianco innaturale dell'interno della fabbrica si contrappone al rosso del sangue dei buoi macellati, il tutto fotografato da una macchina a mano lievemente traballante, ma decisa nel taglio nitido dell'inquadratura e dei significativi primi piani. Il regista si circonda di un cast di tutto rispetto che accetta di lavorare a paga sindacale tra cui spiccano in ruoli minori, ma di grande effetto, il mandriano disincantato Kris Kristofferson, l'idealista Ethan Hawke e un Bruce Willis cinico più che mai a cui vengono affidate la battute più crude e veritiere della pellicola.
Intelligente la scelta, penalizzata dal doppiaggio italiano, di lasciare in spagnolo gli scambi di battute tra gli immigrati, scelta che ricorda quella ancor più radicale operata da Steven Soderbergh in Traffic. Non per nulla Linklater viene spesso accostato agli altrettanto indipendenti Soderbergh e Gus Van Sant per lo stile anticonformista e ribelle. Non appena il deserto polveroso di confine si popola di disperati in fuga verso l'opulenza made in USA, però, pietra di paragone diviene il più riuscito Babel. All'interiorizzazione della crisi dei personaggi di Alejandro González Iñárritu, Linklater contrappone il dramma della quotidianità, meno suggestivo forse, ma altrettanto crudele nel suo consumarsi davanti al pubblico fino al finale arido e privo di speranza. In fondo non cambia niente, il sistema è così ben avviato che stritola tutto ciò che capita nei suoi ingranaggi, l'unica possibilità è cercare di sopravvivere. Nonostante tutto.

Movieplayer.it

3.0/5