Recensione La 25a ora (2002)

Profondo, duro e intenso, l'ultima fatica di Spike Lee mostra ancora una volta il suo indubbio talento.

24 intense ore di riflessioni

Spike Lee è un regista straordinario; negarlo rappresenta probabilmente un esercizio di scarso rilievo critico. A dispetto di un'ancor giovane età, ha alle spalle una lunga carriera, piena di ottimi titoli, tra i quali è doveroso aggiungere la sua ultima fatica dal titolo La 25a ora, tratto dall'omonimo romanzo di David Benioff.
Girato tra le amate mura di New York (di cui Lee mostra, in un momento molto intenso del film, il Ground Zero del post 11 settembre), tra Manhattan, Brooklyn e il Bronx, La 25a Ora, sorprende per il suo raffinato equilibrio tra emozionalità e controllo narrativo e per la sapienza con la quale tutti i personaggi del film sono raccontati, senza macchiettismi di sorta, ne concessioni alla letteratura più abusata in termini di devianza ed emarginazione.

Se già con il precedente Summer of Sam, Lee ci aveva dato ampia prova della sua completa maturazione raggiunta in termini di qualità visiva e narrativa, in La 25a ora, la sua cifra stilistica appare ancora più ricca e personale. Liberatosi ormai definitivamente dell'etichetta (mai in realtà meritata) del cineasta nero capace di narrare solo storie di ghetto e di sottocultura, il cinema di Spike Lee, sembra volersi addentrare, senza comunque perdere quella sua innata capacità di mostrare in modo assolutamente lucido e profondo il contesto da dove nasce l'emarginazione, in un territorio più soggettivo: quello delle biografie individuali.
In questo senso Summer of Sam ha rappresentato un punto di incontro tra il suo precedente modo di intendere il cinema (da Fa' la cosa giusta a He got game) e la sua nuova attitudine, in quanto le storie dei protagonisti erano ancora viste tramite la lente d'ingrandimento deformata di una comunità bigotta e reazionaria.

In La 25a ora invece, tutto il film passa per il personaggio di Edward Norton (in un'interpretazione straordinaria) che ha un giorno di tempo per mettersi in discussione, per comprendere, in altre parole, il percorso della sua vita e le sue scelte. Sono infatti proprio le scelte il tema dominante della pellicola; Norton stesso in un'intervista sul significato del film sostiene: "La storia mostra le conseguenze della passività morale, della mancata presa di posizione di fronte a situazioni oscure dal punto di vista etico. Monty è un personaggio complesso ad un bivio e si trova a lottare con ciò che ha fatto e con la responsabilità delle sue scelte, e in parte vorrebbe far ricadere la colpa sugli altri".

Questo tentativo del personaggio di voler demandare le proprie responsabilità è evidente in un momento centrale del film in cui Monty, davanti allo specchio inveisce contro tutto e tutti in un indimenticabile sproloquio, per poi rendersi conto che la responsabilità è tutta nella sua avidità e nei suoi errori. Tutto ciò non significa che Lee è diventato d'improvviso un fautore del sogno americano, la sua posizione rispetto alle possibilità della scelta è ancora critica, ma di una criticità problematica e per questo più rilevante e profonda, lontana da ogni giustificazionismo, ma consapevole dell'evidente stratificazione della società americana.
E' in fondo questa consapevolezza datagli dalle sue radici culturali e cinematografiche a fare di Spike Lee un nuovo moderno Scorsese, capace di illustrare la realtà e la vita dei bassifondi senza perdere di vista un'idea di cinema ad ampio respiro anche emozionale. Unico regista, insieme a Tarantino probabilmente, a saper ibridare le suggestioni post-moderne e gli ammiccamenti all'humor nero e alla cultura pop con un'idea di cinema più classica e di forte impatto evocativo (la parte finale del film ricorda il miglio Cimino) il regista americano con il viso buffo e la corporatura poco appariscente Lee è qui per restare con buona pace dei detrattori.