Salemme e Battiston duo 'Senza arte né parte' per Giovanni Albanese

Abbiamo incontrato il regista e il cast della commedia che tratta il precariato dall'insolito punto di vista di tre magazzinieri di un pastificio salentino che si improvvisano artisti per sbarcare il lunario; 'E' la creatività artigianale che unisce gli operai e gli artisti', dice Vincenzo Salemme.

Cosa rende un artista tale? Qual è la magia nascosta dietro ad un quadro o ad una scultura e soprattutto, può un gruppo scalcagnato di operai freschi di licenziamento riprodurre un capolavoro per dare una svolta alla propria vita? A queste domande risponde con leggerezza ed un pizzico di disincanto il nuovo film di Giovanni Albanese, Senza arte né parte, presentato questa mattina a Roma. Con la sola eccezione di Giuseppe Battiston, al fianco del regista barese si sono visti alcuni degli interpreti principali, ovvero Vincenzo Salemme, Donatella Finocchiaro, Hassani Shapi e Giulio Beranek, accompagnati da comprimari di lusso del calibro di Ninni Bruschetta e Sonia Bergamasco. La commedia, in uscita nazionale il prossimo venerdì in 130 copie, racconta le vicende di una novella banda degli onesti (il titolo della pellicola di Camillo Mastrocinque, interpretata da Totò e Peppino De Filippo è risuonato spesso questa mattina...) composta da Enzo, Carmine e Bandula, magazzinieri del pastificio Tammaro, licenziati in tronco dal proprietario (Paolo Sassanelli), un affarista senza troppi scrupoli che dopo aver automatizzato la fabbrica decide di seguire il consiglio della sua amante-amministratrice (la Bergamasco) e buttarsi sull'arte contemporanea. Così l'uomo fa sbarcare nel paesino del Salento in cui opera, un ricco assortimento di pezzi pregiatissimi, dal Baco da Setola di Pino Pascali (quotazione attuale un milione e duecento mila euro) alla celeberrima Merda d'artista di Piero Manzoni, passando per i tagli di Lucio Fontana e un plate painting di Julian Schnabel. A fare da guardiani a tutto questo bendiddio, Tammaro chiama proprio i suoi tre ex lavoratori, che a contatto con quegli strani manufatti si lasciano stuzzicare da un'idea risolutiva: rubarli, venderli ad appassionati collezionisti e sostituirli con delle copie fatte a regola d'arte. Fatte cioè da loro in persona. Il trucco funziona, almeno fino a quando i loro falsi non finiscono all'asta, dove tutti li ritengono degli originali. Perché alla fine, come dice il gallerista interpretato da Ninni Bruschetta, è il prezzo che dice se un'opera è vera.

Giovanni, oltre ad essere un regista sei anche un apprezzato artista. Tra l'altro sarai invitato al Padiglione Italia alla prossima Biennale di Venezia. E' stato questo suo grande amore per l'arte contemporanea ad averla spinta a scrivere e dirigere il film?

Giovanni Albanese: Direi proprio di sì. La commedia nasce proprio dalle mie due più grandi passioni, il cinema e appunto l'arte contemporanea. In realtà non sono due universi così distanti. In fondo il cinema è l'ultimo esempio di bottega rinascimentale esistente oggi e guarda caso tutto finisce su una tela bianca. Avevo voglia di raccontare questo cortocircuito tra alto e basso, tra il mondo dell'arte così elitario e lontano dalla realtà di tutti i giorni e il basso. I miei protagonisti, licenziati a 40 anni, devono riciclarsi e scoprono qualcosa per loro agli antipodi. All'inizio si avvicinano solo alle opere che sono facili da rifare, anche se in realtà non è proprio così, poi però trattano l'arte con profondo rispetto.

Ti sei ispirato alla famosa beffa di Livorno, quella dei tre studenti che hanno simulato il ritrovamento delle teste di Modigliani?
Giovanni Albanese: No, assolutamente. Quelli erano degli esperti che volevano proprio riprodurre lo stile di Modigliani, i nostri operai ripeto copiano quello che è più facile e lo fanno con delicatezza e rispetto, perché sanno nel profondo che certe cose non le può fare chiunque. Ci tengo a precisare che non prendo in giro nessuno. Loro hanno un approccio sano alla questione, chiaramente da commedia. Sono grati all'arte perché li può far campare e soprattutto perché tira fuori il loro lato creativo. Dà a loro il coraggio per uscire dall'empasse.

Vincenzo Salemme: A questo proposito, è bello il modo in cui cambiano le relazioni tra i personaggi. All'inizio è Carmine, il personaggio di Giuseppe Battiston, ad essere il leader del gruppo, poi il mio Enzo attraverso l'arte trova un modo di diventare anch'egli una sorta di capo. Mi ha divertito questa innocenza e soprattutto mi è piaciuta la possibilità che un mondo basso, socialmente parlando, potesse incontrare l'arte e trovare un linguaggio comune. Che poi è quello della creatività artigianale.

Per te, attore cresciuto nella scuola teatrale partenopea, è stato un modello da seguire il Totò de La banda degli onesti?
Vincenzo Salemme: Senza arte né parte ha poco di quel film, forse solo l'innocenza dei personaggi. La banda degli onesti è una farsa vera e propria, questa invece è una commedia dal tono decisamente british. Qui non ci sono quelle esasperazioni e quelle forzature che Totò e Peppino facevano per fare ridere la gente, per questo penso che sarebbe stato profondamente sbagliato ispirarmi a loro.

Che rapporto hai con l'arte?

Vincenzo Salemme: La sorella di mia moglie è un'artista famosa, ma io con la manualità ho poco a che fare. Una cosa però la posso dire. L'arte degli anni '70 era meno affascinante di quella attuale. Per intenderci, la montagna di sale di Mimmo Palladino che si vede nel film riesce a stupire anche un'anima semplice. C'è una creatività in più, secondo me, una maggiore invenzione artigianale. Altro che le corde o gli specchi che mi è toccato vedere a Londra.
Giovanni Albanese: E poi alla fine delle riprese Vincenzo un quadro lo ha acquistato. L'avvicinamento c'è stato....

Tra l'altro avete utilizzato delle riproduzioni di opere vere...
Giovanni Albanese: Sì certo, liberamente interpretate e riprodotte dopo aver ottenuto il via libera delle Fondazioni e degli autori. Ci tengo a precisare poi che tutti i falsi sono stati distrutti.

Qual è stato il criterio per sceglierle?
Giovanni Albanese: Ho pensato a degli artisti le cui opere si potessero riprodurre facilmente, anche per rimanere su un livello comprensibile. Alla fine si tratta sempre di una commedia. Se avessi scelto opere troppo intellettuali, ad esempio il magnifico e gigantesco bigliardino creato da Maurizio Cattelan, ci saremmo addentrati in una grande foresta.

Diamo voce agli altri interpreti per una battuta sui loro personaggi...
Donatella Finocchiaro: Io sono la moglie di Enzo, la classica donna di polso che tira fuori dai guai tutti gli altri.

Sonia Bergamasco: Il mio personaggio ama davvero l'arte e ha una sensibilità tale da comprendere la forte energia di questi operai che si trova davanti, uomini che di fronte alla bellezza di certe opere provano quasi la meraviglia dei bambini.
Hassani Shapi: Io dico che mi sono innamorato di Otranto e Palmeriggi. Quello di Giovanni è un film leggero, ma che ha dietro tante questioni. Primo fra tutti, cosa sia l'arte contemporanea. Spero che la stessa domanda se la ponga anche il pubblico.
Giulio Beranek: Mi sono divertito tantissimo a lavorare con questo gruppo di attori. Li vedevo al cinema e in tv e poi mi sono ritrovato con loro dall'oggi al domani. Marcellino, il mio personaggio, crede di essere un boss, ma è solo uno scalmanato che si gioca tutto al gratta e vinci. Però è lui che ha l'idea vincente di riprodurre le opere d'arte.
Ninni Bruschetta: La realtà di questo mondo particolare che è quello dell'arte viene raccontato attraverso il mio personaggio, quello del gallerista senza scrupoli. Ma il film racconta anche l'anima di questo universo. E l'interrogativo che proponeva Hassan, su cosa sia l'arte, è destinato a rimanere senza risposta.