Recensione La fine è il mio inizio (2010)

Il regista Jo Baier, pur avvalendosi della collaborazione del figlio Fosco nella stesura della sceneggiatura, non riesce a veicolare con voce chiara e potente la brillante arguzia del giornalista esploratore Tiziano Terzani.

Un ultimo giro di giostra

Un monaco zen siede nel silenzio della sua cella, prende un pennello e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude, ma, prima che questo gesto all'apparenza innocuo metta fine alla sua esistenza, Tiziano Terzani si siede all'ombra di una pergola per raccontare al figlio Folco l'emozionante avventura di una vita. Dalla più remota periferia di Firenze fino alla Cina di Mao la strada è incredibilmente lunga per un ragazzino destinato a un mondo dignitosamente povero e limitato. Le domeniche passate a "spiare" tra la siepe di un ristorante il riflesso di un mondo solo immaginato e i racconti di Mario il marinaio sono stati, però, il primo gradino verso la consapevolezza e la conoscenza dell'altro, un cammino che il giovane Tiziano ha iniziato quasi inconsapevolmente aggrappandosi con costanza alla sua necessità di cultura come unica arma possibile per il definitivo riscatto sociale. Così, dalla Normale di Pisa all'Olivetti fino ai due anni newyorkesi passati a studiare il cinese a spese dell'anticomunista governo americano, il ragazzino di provincia si trasforma in un attento osservatore del mondo, diventando testimone e narratore della grande storia raccontata sempre attraverso i profumi, il gusto e il rumoreggiare degli umili. Avvenimenti che, dopo trent'anni trascorsi in Asia come inviato per il settimanale tedesco Der Spiegel e testimone oculare del fallimento sociale di Mao, s'interrompono per condurre il giornalista esploratore verso una nuova terra di scoperta: la malattia lo colpisce all'improvviso e in modo altrettanto imprevedibile cambia il punto d'osservazione imponendogli una riflessione esistenziale fino a quel momento rimandata. Per questo motivo, dopo aver scoperto una sorta di spiritualità panteistica nella grandiosa solitudine dell'Himalaya, Terzani siede pazientemente nella quiete della sua casa in Toscana ad aspettare con malcelata curiosità l'atto finale della vita come l'avventura più misteriosa alla quale abbia mai preso parte.


Cinema e letteratura sono legati da una relazione lunga e duratura anche se non sempre fruttuosa. La sintesi, tipica del linguaggio visivo, si è spesso mal sposata con la complessità della parola scritta e dei suoi molti significati, lasciando in eredità prodotti tendenzialmente incompiuti. Per questo motivo, se è vero che la buona letteratura è quasi sempre in grado di evocare immagini e sensazione dalla grande forza emotiva, non è altrettanto scontato che il cinema riesca a riconoscere e codificare i molti percorsi nascosti tra le pagine di un romanzo. Così, si giunge ad un'inevitabile conclusione secondo la quale una materia scritta complessa e sfaccettata avrà una trasposizione visiva invariabilmente riduttiva. Un destino da cui è perseguitato un narratore raffinato e strutturato come Philip Roth, che del pensiero e della manipolazione della parola ha fatto il centro stesso della sua letteratura, e che oggi colpisce in forme e per motivi diversi anche il romanzo testamento di Tiziano Terzani. Scritto dal figlio Fosco attraverso il racconto di un uomo che ha utilizzato il linguaggio giornalistico per sperimentare il mondo e per lasciarne un'immagine inedita e critica a metà tra l'opinione personale e l'obiettività storica, il libro La fine è il mio inizio ripercorre gli eventi rivoluzionari della società che, casualmente e miracolosamente, si è intersecata con la crescita personale di un individuo.

Allo stesso tempo, seguendo i passi di Terzani dal racconto del suo Vietnam alla fascinazione per la guerriglia poetica del Che fino alla tanto agognata Cina, si apprende non solamente una preziosa lezione di giornalismo attivo ma soprattutto un amore senza confini per l'ignoto e lo sconosciuto. Particolari cui il film diretto da Jo Baier, pur avvalendosi della collaborazione del figlio Fosco nella stesura della sceneggiatura, non è riuscito a veicolare con voce chiara e potente. Piuttosto che avventurarsi nella complessa lettura di una vita in cui personale e universale sono intensamente legati, il linguaggio cinematografico cede alla tentazione della semplificazione e sceglie di percorrere il sentiero narrativo più evidente o più facilmente fruibile al grande pubblico. In questo modo, la consapevolezza spirituale o filosofica raggiunta da Terzani negli ultimi anni della sua vita lascia ben poco spazio all'eredità umana e professionale di un individuo che ha guardato alla realtà con brillante arguzia e costante indignazione. Nell'attesa dell'inevitabile, il colloquio tra padre e figlio sperimenta una nuova forma di drammaturgia priva di pathos che diluisce la realtà offrendo una fotografia sfocata del personaggio e del suo momento. Neanche l'incontro di Bruno Ganz con Elio Germano,qui nella veste di semplice ascoltatore, riesce ad arginare una sorta di esistenzialismo dilagante, mentre le riflessioni di una vita si dissolvono in un retorico bignami new age.

Movieplayer.it

4.0/5