Recensione In un mondo migliore (2010)

Susanne Bier è abilissima a costruire un film in cui la tensione parossistica serpeggia fin dalle prime scene, ma il suo cinema così duro e viscerale non potrebbe fare a meno di un cast capace di esprimere l'incredibile gamma di emozioni richieste.

I bambini ci guardano

Il cinema di Susanne Bier è ben lungi dall'essere pacificato. Ce lo dimostra il suo ultimo lavoro, il duro In un mondo migliore (In a Better World), incentrato sull'universo infantile, sull'amicizia e sui legami familiari. Quanto influenzano il comportamento dei bambini le azioni e l'indifferenza degli adulti? Esiste veramente la crudeltà? Cosa la determina? Come sempre accade nelle sue opere, la volitiva regista danese si pone domande complesse a cui è difficile dare risposta, ma ciò che le interessa veramente non è trovare facili soluzioni, ma scandagliare l'animo umano nella sua complessità realizzando un cinema di persone più che di personaggi, mai banale, mai scontato anche nelle sue imperfezioni. La riflessione sulla contemporaneità viene amplificata dalla scelta di creare un ponte tra Occidente e resto del mondo, nello specifico un non meglio precisato paese africano che ricorda molto il Sudan dei signori della guerra. Tendenza, questa, che prosegue un discorso iniziato nei due precedenti lavori, Non desiderare la donna d'altri e Dopo il matrimonio, in cui India e Afghanistan sono stati usati come doppelgänger dell'Occidente, come filtro di lettura privilegiato per comprendere i drammi della nostra società opulenta e razionale.


Prodotto della tollerante cultura scandinava è Anton, medico missionario che opera in Africa impegnato a salvare le vite di pazienti massacrati dalla guerra civile e a tenere insieme i pezzi di quella che un tempo era la sua famiglia. L'uomo tenta di inculcare l'etica del perdono nel figlio preso di mira dai bulletti della scuola finché quest'ultimo non stringe amicizia con l'ombroso Christian (lo straordinario William Jøhnk Nielsen) che ha da poco perso la madre malata di cancro. Susanne Bier non ha paura di costruire un film a tesi cercando di dimostrare come la violenza primigenia e selvaggia del Terzo Mondo e quella strisciante, ma altrettanto brutale, della civilissima Europa non siano poi così diverse. L'effetto straniante delle scene ambientate in Africa, in cui viene mostrato il lavoro di Anton nella missione, contribuisce ad amplificare il messaggio veicolato dal film risultando, però, a tratti superfluo. In fin dei conti il cuore di In a Better World è racchiuso nell'incisivo corpus danese. Susanne Bier è sintonizzata sulla propria cultura e colpisce duro nel momento in cui dipinge una società apparentemente evoluta, all'interno della quale si annidano insospettabili mine vaganti come il rozzo genitore che si scontra con Anton nel parco giochi.

Lo stesso Christian vive un profondo contrasto col solo genitore rimastogli (un dimesso Ulrich Thomsen), un rapporto fatto di rancori inespressi, di incomprensioni, di sospetti e sensi di colpa che deflagra scatendando la tragedia. La Bier è abilissima a costruire un film in cui la tensione parossistica serpeggia fin dalle prime scene usando come fulcro proprio il personaggio di Christan, ma il suo cinema così duro e viscerale non potrebbe fare a meno di un cast capace di affidarsi interamente alla direzione della regista esprimendo l'incredibile gamma di emozioni richieste. Alla straordinaria qualità delle performance corrisponde una regia accurata che non rinuncia a un'estetica gelida e raffinata per narrare il dramma dei personaggi, oggettivandone l'interiorità senza mai cadere nella ridondanza didascalica (bellissime le scene ambientate nella casa delle vacanze in cui Anton passa il suo tempo una volta tornato in Danimarca). Anche stavolta Susanne Bier si dimostra capace di colpire dritto al cuore e, nonostante certe spigolosità del suo lavoro, si candida al palmares romano.

Movieplayer.it

4.0/5