Recensione La città invisibile (2010)

Il primo tentativo di rappresentare in forma di commedia la vita nella tendopoli e il dopo terremoto a L'Aquila non convince più di tanto, minato com'è dalla banalità di dialoghi e situazioni, il cui tono eccessivamente scanzonato abbinato a un linguaggio filmico da fiction televisiva appare talvolta inappropriato al contesto.

Vicini di tenda

Vi sono eventi nei cui confronti il cinema di finzione tende a rapportarsi con un certo imbarazzo, dovuto anche all'inadeguatezza dell'ispirazione e dell'approccio per il quale si è optato, determinando così un ritardo considerevole rispetto a quanto si è saputo realizzare, sullo stesso tema, attraverso opere di natura documentaria. Un esempio calzante potrebbe essere la violenta repressione del G8 ligure, con l'assassinio di Carlo Giuliani quale infausto corollario. Eppure, nonostante le critiche severe che al tempo vennero rivolte a Ora o mai più, primo lungometraggio di fiction ispirato ai tragici fatti di Genova, ci sembra che qualche merito il piccolo film realizzato da Lucio Pellegrini nel 2003 ce lo avesse pure: riusciva, per esempio, a bilanciare i toni scanzonati e un po' troppo giovanilisti della prima parte con una definizione dei personaggi non del tutto effimera (presenti nel cast, tra gli altri, Elio Germano, Violante Placido, Edoardo Gabbriellini e Toni Bertorelli), caratterizzazione resa poi più sanguigna dalla progressione drammatica delle sequenze, poste verso la fine, in cui si alludeva (per quanto con modalità decisamente "soft", rispetto a quanto avvenne realmente lì dentro) alle violenze subite dai giovani no global nella caserma di Bolzaneto.
Ecco, in un film come La città invisibile persino questo genere di concessioni viene a mancare, cedendo il passo a un clima da college movie americano mescolato a stilemi da fiction televisiva nostrana, che facevamo davvero fatica ad immaginare nella cornice delle tendopoli abruzzesi, in un dopo terremoto che ha regalato e continua a regalare spunti polemici non indifferenti, specie per quanto riguarda il ruolo delle istituzioni.

Con la realizzazione del film di Giuseppe Tandoi, aquilano d'adozione che pure il terremoto l'ha vissuto in prima persona, si è quindi creato un divario ancora più ampio tra le modalità del cinema di finzione, qui quanto mai allegrotte e consolatorie, ed il ruolo svolto finora dal documentario d'inchiesta. Le nostre lodi sono già andate al notevolissimo Draquila - L'Italia che trema di Sabina Guzzanti, ma a questo punto saremmo curiosi di recuperare opere come Colpa nostra di Giuseppe Caporale o come quel Sangue e cemento diretto dal Gruppo Zero, collettivo di giornalisti, cineasti ed esperti di comunicazione indirizzatosi spesso verso temi scottanti, il cui lavoro è stato peraltro distribuito dalla stessa Iris Film che sostiene ora La città invisibile.

A questo punto occorre forse una precisazione: non siamo contrari per principio alla proposta di una commedia corale, in cui sforzarsi di rappresentare i sogni, le speranze, le aspirazioni delle famiglie coinvolte nella tragedia del terremoto; ma ci ha indispettito non poco la frivolezza, sconfinata sovente nelle più trite banalità, che fa da sfondo alle superficiali e macchiettistiche avventurette giovanili di cui abbonda la sceneggiatura, indebolita ulteriormente da soluzioni registiche, interpretative e di montaggio più vicine agli standard televisivi, che a quelli cinematografici. L'immaginario giovanile proposto nel film oscilla poi paurosamente tra quello di programmi tv come Amici (guarda caso uno degli interpreti, Leon Cino, emerse proprio in quel contesto) e altri orizzonti, non meno angusti in quanto venati di perbenismo e di istanze fastidiosamente conservatrici. La protagonista Lucilla (Barbara Ronchi) viene dipinta come una ragazza che non sopporta l'alcool, al punto di vietare all'amica di ordinare birra in un pub, è restia a baciare un ragazzo conosciuto da poco, detesta la musica rock, si esalta solo quando c'è da organizzare il coro nella chiesetta da campo della tendopoli: praticamente l'icona perfetta per un meeting di Comunione e Liberazione.
Se poi la tentazione di uno stile di vita più "trasgressivo" risulta incarnata da Luca (Alan Cappelli Goetz), figlio di un primario d'ospedale e frontman di un gruppo rock, i dLane, le cui canzoni in inglese hanno la carica destabilizzante di una Avril Lavigne fusa con qualsiasi boy band in auge al momento, non stupisce nemmeno che la frase più ripetuta da costui sia "sì, papà!", reazione spaventata all'idea che il padre si accorga dei corsi di medicina trascurati in favore del sogno di sfondare musicalmente.
Persino la storia d'amore tra la viziatissima Valeria (Roberta Scardola) e il ragazzo rumeno che la salvò dalle macerie (Leon Cino), pur ambendo a criticare il razzismo di certi contesti famigliari e di quartiere, rimane immersa nelle atmosfere di una sit-com giovanile, con lei che vinta una prima volta la titubanza nei confronti dello straniero comincia subito a preoccuparsi dei vestiti firmati o delle auto lussuose che il giovane operaio, ingegnere in patria, potrebbe (o piuttosto non potrebbe...) procurarle. Del resto la ragazza ha pure un fratello che aspira a fare il "tronista", cos'altro pretendere?

Ecco, sebbene alcuni dei personaggi principali si evolvano, almeno in parte, nel corso della narrazione, il loro punto di vista finisce per combaciare comunque con quello di un'Italia velatamente deamicisiana, che magari vuole rimboccarsi le maniche e sorridere delle proprie disgrazie, ma non ricorre più nemmeno allo sberleffo per mettere in discussione il pensiero dominante, le ragioni del più forte, le storture della propria organizzazione sociale.
Sembrerebbe troppo pretendere ciò da una commedia dichiaratamente votata alla leggerezza, ma quando le critiche a come viene gestita la ricostruzione si limitano a un paio di battute del generoso padre Juan (ispirato a un personaggio reale, ed impersonato con discreta verve da Gabrile Cirilli), mentre il disimpegno si sposa con dialoghi piatti e dai risvolti umoristici così poveri, spenti, omologati, porsi domande è legittimo.
Cosa salvare, allora, di una messa in scena tanto esile? Sicuramente le performance di attori come Nicola Nocella, un Remo che si propone sin dalle prime scene quale emulo di John Belushi, ed il grandissimo Riccardo Garrone, nonno rintanato su un albero le cui stramberie fanno quasi il verso al barone rampante, noto personaggio di Calvino. Oltre a ciò si possono elogiare le buone intenzioni di chi, ad ogni modo, devolverà parte degli incassi alla ricostruzione di una chiesetta aquilana rimasta gravemente danneggiata nel terremoto, come anche la passione riversata nel progetto dal giovane cineasta Giuseppe Tandoi, il quale pur scegliendo una prospettiva discutibile ha voluto raccontare una realtà a lui vicina.
Molto più sospetti appaiono gli appoggi a una simile operazione cinematografica, di taglio opposto rispetto all'immagine delle tendopoli e della ricostruzione offertaci dalla Guzzanti, o da altri guerrilla filmaker, qui concessi col sigillo di svariati enti e istituzioni, tra cui il Dipartimento della Protezione Civile, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero per le Attività Giovanili. Ma forse gli stessi Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso stravedono per la musica dei giovanissimi dLane, protagonisti quasi assoluti della colonna sonora, il che allora spiegherebbe tante cose.