Sono viva: incontro con cast e realizzatori

Arriva in sala dopo una vera e propria odissea produttiva il thriller/ noir di Dino e Filippo Gentili. Nel cast anche Giorgio Colangeli e Giovanna Mezzogiorno.

Rocco è un operaio come tanti, in difficoltà con il mutuo della casa, assillato da una fidanzata opprimente, disapprovato in ogni sua scelta dal padre. L'amico Marco lo coinvolge in un lavoretto all'apparenza facile e soprattutto remunerativo: sorvegliare per una notte una villa di campagna, in cui riposa il corpo senza vita della figlia del padrone di casa. Già inquietante di per sé, la faccenda si fa più complicata quando, durante la lunga e affollata nottata, interverranno il fratello e l'amante della ragazza, ognuno con una diversa idea di come Silvia possa essere morta, e dissonante dalla versione fornita dal padre. Gli esordienti alla regia (ma già forti di un nutrito curriculum di collaborazioni teatrali, televisive e cinematografiche) Dino Gentili e Filippo Gentili orchestrano un viaggio quasi onirico all'interno dell'ambiguo universo dei rapporti umani: la ricerca della verità su Silvia mette in luce tutta l'inadeguatezza di certi legami familiari, ma è anche l'occasione per Rocco di fuggire dalla propria disastrata vita, rendendo giustizia tanto a se stesso quanto alla misteriosa ragazza. Come molte altre interessanti opere italiane, Sono viva è andato incontro ad una vera odissea produttiva, con l'ormai classico tira e molla di finanziamenti statali, prima che la Metafilm di Laura Cafiero e la Iris Film di Christian Lelli ne assicurassero produzione e distribuzione. Abbiamo parlato di questa originale opera prima anche con i registi e il cast, che annovera, oltre al bravo protagonista Massimo De Santis, Guido Caprino, Giorgio Colangeli e Marcello Mazzarella, e vede la partecipazione straordinaria di Giovanna Mezzogiorno.

Christian Lelli: Questa è la terza opera che distribuiamo dall'inizio dell'anno, dopo Sangue e cemento, candidato ai Nastri d'Argento, e La fisica dell'acqua. Questo film lo definirei invece quasi un "noir sul precariato": tanti film hanno già parlato della situazione dei giovani, ma spesso attraverso il genere della commedia impegnata, mentre qui il punto di vista è completamente diverso. Quindi proseguiamo la nostra strada, che è quella di cercare prodotti che non siano tipicamente italiani; usciremo in una dozzina di copie nelle maggiori città italiane e siamo molto contenti di averlo fatto, perché fin da subito abbiamo creduto nel lavoro dei registi e della produzione.

Dino e Filippo, avete detto che il cinema in Italia è come la società, pieno di talenti ma sempre messo in difficoltà dal contesto. Quello del regista è un mestiere faticoso, quindi?
Dino Gentili: Soprattutto le opere prime, come in questo caso, hanno davanti percorsi difficili, come dimostra la nostra piccola vicenda disdicevole, ma dalla quale siamo per fortuna usciti vivi. Per fare questo lavoro ci vuole l'aiuto di persone che credono in quello che fanno; soprattutto gli autori, ma anche i tecnici, sono la punta d'eccellenza del sistema, entrano nella storia aiutando molto gli autori. Quindi siamo stati confortati molto dalla passione dimostrata dai nostri collaboratori.

Quali sono state nello specifico le vostre difficoltà?
Laura Cafiero: Il film aveva ottenuto i finanziamenti grazie alla legge Veltroni, ma la legge è stata poi cambiata da Urbani e i film prima finanziati sono stati mandati a casa. Solo ad alcuni soggetti selezionati, tra cui noi non figuravamo, è stata mandata una circolare che avvertiva di sottoporsi a una revisione per confermare il contributo, e quindi siamo stati costretti a fare ricorso. Il Ministero ci ha poi chiamato e abbiamo negoziato un nuovo finanziamento.
Dino Gentili: Noi ci siamo limitati a raccontare i fatti, e siamo stati anche fortunati considerato il clima di incertezza generale che grava su un'industria che impiega tanto personale e che è anche stimata all'estero, e che quindi non si capisce perché venga così ingiustamente penalizzata.

Qual è stato lo spunto da cui ha preso il via la storia?
Dino Gentili: La prima scintilla è stata di tipo letterario, L'asino d'oro di Apuleio: uno dei racconti parla infatti di una veglia funebre. Ovviamente la storia non ha niente a che fare con la nostra, ma da lì è nato lo spunto per raccontare una famiglia, specie nelle sue dinamiche di contrasto. Ci abbiamo messo delle nostre reminescenze, i nostri archetipi e anche i deliri, e quindi il film è frutto tanto della classicità che di impressioni personali. Il mistero della morte diventa il mistero della famiglia: che senso ha? Perché c'è?
Filippo Gentili: Abbiamo voluto mostrare come anche i sentimenti possano diventare lotte di potere, tra padri e figli che faticano a compiere il famoso "parricidio" che segna il passaggio all'età adulta. E' un film "maschile" in cui però i maschi non fanno una bella figura, ed è un film sui giovani che non riescono a scalzare una generazione che è da troppo tempo sempre la stessa, a volte con onore ma altre volte no.

Il vostro film si riconosce nella definizione di "noir dell'anima"?
Dino Gentili: Si, l'anima è quella di un uomo qualunque che si trova di fronte ad una situazione straordinaria. Come tanti ha una vita che non gli piace, è una persona insoddisfatta, di quelle che, essendo buone, cercano sempre di accontentare tutti. Ma una volta che viene lacerata la sua crosta di disponibilità, è pronto per un nuovo punto di partenza.
Massimo De Santis: Il termine "anima" lo trovo particolarmente vicino a quello che ho cercato di fare. E' stato un lavoro a togliere, di riduzione all'essenziale. Mi hanno aiutato molto il regista e gli altri attori, insieme al fatto di aver provato tanto anche prima dell'inizio delle riprese.

Giorgio Colangeli, dopo tanto teatro da qualche anno è molto attivo al cinema. Come sceglie i suoi film?
Giorgio Colangeli: Io leggo molte sceneggiature e credo di aver imparato a valutarle. Questa mi è piaciuta subito, perché l'ho trovata originale: è un thriller, ma contiene una serie di metafore molto ragionate sulla nostra società. Questo è il primo film che ho girato dopo essere uscito dal "limbo" e per questo ho vissuto l'esperienza con grande entusiasmo. Sono felice del risultato, ma un po' meno delle traversie che abbiamo subito.

Giovanna, se i maschi non fanno una buona figura, i personaggi femminili si danno e non si danno. Silvia è morta, e anche il tuo personaggio non lascia passare molto di sé.
Giovanna Mezzogiorno: Innanzi tutto voglio dire che la mia partecipazione nasce da una conoscenza antica, io e i registi infatti siamo cugini. Loro però non mi hanno proposto il film, al contrario sono stata io a volerne fare parte, perché mi era piaciuta da subito la sceneggiatura, diversa da quello che avevo già letto. Io l'ho definito una sorta di fumetto di Dylan Dog, dei quali sono sempre stata un'appassionata. Questa lunga notte con dei personaggi che vi entrano, ma senza mai chiarirsi, mi ha affascinato. Non so valutare se i personaggi femminili e maschili siano positivi o no, ma sono tutti come appesi a un filo, alla ricerca di qualcosa: come in una pièce teatrale entrano, portano la propria atmosfera ad una storia che rimane aperta, e poi spariscono, come succede anche nella vita. Credo che il film abbia molti significati importanti, e che sia interessante il suo essere un mosaico surreale di ruoli strani.

Marcello, qualcuno del film ha detto: "bello, non sembra nemmeno un film italiano!". Tu che hai lavorato in contesti internazionali, condividi questa affermazione?
Marcello Mazzarella: Sono molto felice di aver fatto questo film, e l'atmosfera è stata davvero "non italiana" per come mi ha permesso di giocare. Ho accettato subito il ruolo senza fare nemmeno un provino, e credo che sia cominciata per Mazzarella un'era nuova, quella della comicità sottile. Il problema del cinema italiano è che spesso gli attori vengono considerati creature non intelligenti, da mettere in scena quando tutto è già stato deciso, mentre qui è stato bello essere messi in gioco prima. Da un certo punto di vista, è il concetto della biga con due cavalli: Filippo è più preciso, mentre Dino vuole che ti scateni. L'atmosfera è stata eccezionale, io non sapevo nemmeno di tutti questi problemi produttivi.

Il film sembra avere delle influenze hitchcockiane. E' uno dei vostri riferimenti?
Dino Gentili: Innanzi tutto ringrazio del paragone; come tutti quelli che amano il cinema, noi ci nutriamo di esso, ma abbiamo affrontato il film liberi, l'abbiamo diretto con una "sicurezza incosciente". Sicuramente predomina il piano sequenza, in cui Welles e lo stesso Hitchcock sono stati dei maestri indiscussi, e abbiamo cercato di differenziare lo stile tra le sequenze dentro la casa e quelle esterne: per la parte "realistica" predomina la camera a mano, anche se abbiamo cercato di tenerla morbida, senza troppi scossoni, mentre in casa, entrati nella fabula, abbiamo scelto un andamento più lento. Questa libertà ci è stata permessa anche dalla produzione, che ci ha sempre lasciato lavorare autonomamente.
Filippo Gentili: E' da sottolineare poi l'importanza dei tecnici, che in realtà sono veri e propri artisti: con certi collaboratori puoi dire di aver già fatto metà film, a dimostrazione di come si possa lavorare anche con mezzi limitati.

Avete pensato ad un'eventuale trasposizione teatrale?
Filippo Gentili: Io voglio disperatamente liberarmi di questo film, ormai!
Dino Gentili: Il film lo definisco già una pièce per la sua forte base teatrale, quindi non si sa mai.

Guido, come si lavora con due registi? Chi si deve ascoltare?
Guido Caprino: Io ho deciso di non ascoltare nessuno dei due, quindi non c'è problema! A parte gli scherzi, alla fine la decisione era sempre unanime, e anzi il dialogo è stato molto costruttivo, visto che due teste pensano meglio di una sola.

Giovanna Mezzogiorno: Secondo me per loro lavorare insieme è stato più difficile di quanto non sia stato per noi avere due registi. A noi arrivavano informazioni abbastanza chiare, il grosso è stato coordinarsi tra loro, trovare un equilibrio in modo da non far arrivare a noi nessuna confusione.

Chi è Silvia? Anche ne Lo strano caso di Angelica di Manoel de Oliveira è un cadavere a cambiare le persone vive, e c'è tutta una letteratura, specialmente inglese, sull'argomento. Filippo Gentili: La ragazza che interpreta Silvia in realtà non è un'attrice, noi l'abbiamo scelta per la sua bellezza un po' inquietante.
Dino Gentili: La morte contiene una verità, che noi abbiamo evidenziato rendendo Silvia splendente grazie agli effetti speciali, mentre le persone intorno a lei sono ancora alla ricerca. Lei è immobile e meravigliosa: è il fascino della morte come metafora di verità congelata, è colei a cui ci si rivolge per interrogare, in realtà, se stessi.

Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Filippo Gentili: Pensavamo di fare qualcosa di più leggero. Abbiamo tanti progetti in mente, dei generi più diversi. Ci piace cambiare e sperimentare, per ora il futuro è incerto.