Recensione A Screaming Man (2010)

Mahamat-Saleh Haroun racconta ancora una volta il dramma del Ciad, e lo fa con dei potenti sottintesi che rallentano il ritmo del film ma al tempo stesso ne amplificano l'efficacia.

L'urlo silenzioso

Adam, ex campione di nuoto, è da quasi quarant'anni il custode della piscina di un lussuoso albergo del Ciad, da un po' di tempo coadiuvato dal giovane figlio Abdel. La vita povera di tutti i giorni non gli pesa, perché l'orgoglio delle glorie passate, l'amore per la "sua" piscina e la felicità di poter lavorare ogni giorno accanto all'amato figlio fanno dimenticare ogni miseria e fanno sembrare lontani anche gli orrori della guerra civile che da decenni e quasi senza sosta si consuma nel suo paese. Ma quando l'albergo viene privatizzato e venduto ad una nuova proprietà cinese, le cose improvvisamente precipitano: il suo decennale amico cuoco David viene licenziato e Adam viene rimosso dal suo incarico alla piscina e viene messo a lavorare al passaggio a livello all'entrata dell'albergo.

Per Adam si tratta di un qualcosa di peggio di un semplice licenziamento, il dolore di essere allontano dalla piscina che rappresenta la sua intera vita è pari solo all'umiliazione che gli brucia dentro e che non gli permette nemmeno di gioire per il fatto che sia stato il figlio, e non un estraneo, ad avere il suo posto. Adam perde così ogni lucidità, inconsciamente ritiene colpevole il figlio di avergli usurpato il lavoro e comincia a non parlargli più, e non realizza la gravità di quanto gli succede attorno: è così che quando il Capo Distretto continua a chiedere un contribuito per la guerra, risponde semplicemente di essere senza soldi e di lasciarlo perdere senza pensare che il contributo non versato sarà in questo modo pagato in un altro modo, ovvero con il reclutamento forzato del figlio, un vero e proprio rapimento durante il quale Adam nemmeno ha la forza di intervenire.

Con A Screaming Man il regista ciadiano di Daratt (gran premio della giuria a Venezia nel 2006) Mahamat-Saleh Haroun racconta ancora una volta il dramma del suo paese, e lo fa con dei potenti sottintesi che rallentano il ritmo del film ma al tempo stesso ne amplificano l'efficacia: per esempio le urla del titolo sono inudibili agli spettatori perché il protagonista del film è completamente chiuso in sé stesso e letteralmente divorato dal senso di colpa, tanto da non riuscire nemmeno a trovare la forza di credere in un miracolo divino, ma il dolore del protagonista si legge comunque sul volto quasi impassibile dell'intenso Youssouf Djaoro. Anche la guerra, sempre presente nei rumori fuori campo o attraverso la radio e i notiziari, rimane praticamente invisibile, come a mostrarci la sconvolgente condizione di un popolo che è da tempo costretto a convinverci costantemente e che è incapace di reagire in alcun modo; la frase che il cuoco dice ad Adam dopo essere stato licenziato dal suo lavoro di quarant'anni è infatti esemplificativa della condizione dell'intero paese: "questa volta David non può sconfiggere Golia".

Movieplayer.it

3.0/5