Cine-games: la Disney ci prova con Prince of Persia

Nonostante i numerosi tentativi di conquistare il pubblico dei gamer al cinema, sono davvero poche le trasposizioni da videogioco a film che si possano dire riuscite, anche da un punto di vista esclusivamente economico. La Disney ci prova con l'avventuroso action interpretato da Jake Gyllenhaal.

Il rapporto di scambio tra cinema e videogiochi è iniziato già negli anni '80, quando i computer games erano ancora agli albori e doveva ancora comparire la prima console dedicata. Il mercato dei videogiochi aveva dimensioni ridotte, e i prodotti erano ancora privi delle valenze che hanno oggi, tra impegno produttivo, valore tecnico, importanza dell'elemento narrativo, etc. In questi anni, i tentativi fatti per portare i giochi più significativi sul grande schermo sono stati molteplici, ma quasi sempre fallimentari.
I videogame, per parte loro, vivono un avvicinamento sempre più insistito e consapevole al mondo del cinema, trasformandosi sempre più in un medium che associa l'interattività ludica a una forte narratività mutuata dal linguaggio cinematografico. Questo trend ha coinvolto anche gli ultimi titoli di franchise popolari come Final Fantasy e Call of Duty, in cui si è voluto rinunciare alle grandi libertà del videgioco puro per creare una storia fluida e solida - fino ad alimentare un acceso dibattiti tra gli appassionati, divisi tra sostenitori di questa tendenza e nostalgici dell'esperienza videoludica più classica. E il mondo dei games si avvicina a quello del cinema anche attraverso collaborazioni sempre più frequenti e di alto livello, come le tante partecipazioni vocali di noti attori - che spesso prestano alle avventure videoludiche anche la propria immagine oltre alla voce - e come contributi di natura tecnico-artistica, come ad esempio lo score firmato da Hans Zimmer per l'ultimo episodio di Call of Duty.

Si potrebbe pensare che si tratti di un avvicinamento vicendevole, ma in realtà non è affatto così. Continuano ad essere realizzate pellicole tratte da celebri videogiochi, ma l'atteggiamento che ha prodotto tante delusioni non sembra cambiato: si tende a sfruttare il nome, il marchio, l'appeal di un titolo per incuriosire gli appassionati, ma paradossalmente non si approfitta degli aspetti più adatti al grande schermo. Esempio evidente di questo è Max Payne, videogame del 2001 decisamente cinematografico: un racconto noir con voce fuori campo, utilizzo del bullet time alla Matrix, e andamento narrativo tipico della settima arte, che nella versione filmica ha richiamato sì il marchio e l'idea ma senza saper inserire gli elementi che sembravano già fatti per il cinema.
Tra gli altri casi noti, la trasposizione della saga di Tomb Raider, che chiamava in causa il personaggio della protagonista Lara Croft, divenuta popolarissima anche al di fuori dell'ambiente videoludico, senza sfruttare le atmosfere così riconoscibili dei giochi, tanto simili a quelle tanto care al pubblico di Indiana Jones. Parimenti, una volta approdato al cinema il franchise di Final Fantasy, famoso per la complessità delle trame e per la ricchezza dell'introspezione psicologica, si è trasformato in una fredda e vacua sequela di virtuosismi tecnologici.
Un'eccezione è quella della saga di Resident Evil, che vanta diversi sequel ed è anche piuttosto popolare anche grazie al carisma dell'insostituibile eroina Milla Jovovich. Ma il franchise filmico ha preso sin dall'inizio una strada molto diversa da quella battuta dai videogame, limitandosi ad accennare alle trame di questi ultimi con qualche citazione /strizzatina d'occhio. Per il resto, i progetti di origine videoludica in fase di concezione sono diversi - Halo, Bioshock, Gears of War, tanto per fare alcuni nomi - ma faticano a concretizzarsi nonostante la sbalorditiva base di appassionati: questo perché l'ampiezza del pubblico dei videogiocatori non è sufficiente garanzia per gli studios che esitano a impegnarsi in produzioni tanto laboriose e costose senza la certezza di un ritorno economico.
Il problema, in fin dei conti, è semplicemente la mediocrità della gran parte dei prodotti ispirati ai videogiochi. I gamer si sono dimostrati ben più difficili, elusivi ed esigenti di quanto i produttori cinematografici non si aspettassero, e il mercato che li riguarda, ricchissimo di possibilità, è rimasto ancora tutto da conquistare. La stessa cosa, tuttavia, poteva dirsi del pubblico dei lettori di comics: anche il connubio tra cinema e fumetti ha languito per decenni prima dell'esplosione dell'ultimo decennio, che l'ha visto spopolare grazie a opere di valore affidate a registi dotati di personalità e talento, fino a quel miracoloso matrimonio tra grandiosità da blockbuster e autorialità che è Il cavaliere oscuro.

Manca dunque ancora l'opera che dia il la al salto di qualità anche per i cine-games, e, proprio in questi giorni, la Disney punta su Prince of Persia: Le sabbie del tempo, kolossal avventuroso tratto da una delle saghe videoludiche più amate di sempre e prodotto da quel Jerry Bruckheimer che è il Re Mida che ha trasformato un'attrazione da luna park nel successo planetario de I pirati dei Caraibi (un franchise che tra l'altro deve non poco a un altro celebre videogame, Monkey Island). Sarà la volta buona? Difficile dirlo, di certo il film di Mike Newell appare uno dei tentativi più ambiziosi realizzati fino ad oggi. Ai gamer l'ardua sentenza!