Recensione Hatchet (2006)

Hatchet è un piccolo e riuscito horror che non ha il minimo interesse nel raccontare qualcosa di avvincente in termini di suspense, quanto piuttosto omaggiare un certo horror sanguigno e artigianale, lontano anni luce dalla deriva contemporanea del genere.

Le paludi della vendetta

E' sempre tempo per un buon horror. Specie se viene accompagnato da una tagline gustosa che recita: non è un remake, non è un sequel, e non è nemmeno basato su un film Giapponese. Così si presentava in America Hatchet, tre anni fa; uno scanzonato e sanguigno omaggio al genere con la volontà di prendere le distanze dalla deriva annacquata in cui versa l'horror da molti anni. Salvo ovviamente rare eccezioni, che purtroppo non fanno mai un movimento. Dura però è stata la strada distributiva del film di Adam Green che si è beccato il mortale divieto ai minori di 17 anni dalla censura americana, con conseguente abisso di visibilità. A guadagnarne, come spesso accade in questi casi è l'alone cult - termine ormai in cui è possibile iscrivere sempre meno film - visto lo stuolo di fan che si è mobilitato per garantirne l'uscita. L'arrivo in Italia poi ha subito innumerevoli posticipi fino a quando l'insistenza di One Movie non ha dato una chance all'opera prima di Green, che intanto sta completando il suo sequel, dopo aver realizzato anche il buon Frozen.

Il plot è esile e pretestuoso come si può attendere e narra di un giovane terribilmente deforme, di nome Victor Cradley, che vive isolato con il padre in una casa sperduta tra le paludi di New Orleans. Cradley è tenuto lontano dal mondo circostante, causa la sua condizione, fino a quando, una notte di Halloween, dei ragazzi lo mettono sotto assedio lanciando petardi contro la sua casa e finiscono involontariamente per dare fuoco all'abitazione dove Victor è rinchiuso. Accortosi immediatamente della terribile situazione, il padre cerca di salvarlo, ma una delle accettate sferrate contro la porta finisce per uccidere il figlio. Da quel momento la palude diviene maledetta e preda di misteriose carneficine in cui si imbattono anche un gruppo di variegati turisti, composto da un ragazzo depresso e dal suo amico riluttante, un regista soft-porno con due attrici, una coppia di anziani e una misteriosa ragazza, guidati da un truffatore che cerca di fare qualche soldo con gite in tema voodoo e fantasmi.
Hatchet è nient'altro che un divertito slasher a basso costo, ricco di piccole trovate, in piena adesione con il sottogenere foriero da sempre di puro guilty pleasure e di conseguenza costante bersaglio della critica più istituzionale che ne condanna l'esibizione della violenza e ovviamente la stupidità e la ripetitività dei plot. Argomentazioni legittime ma che nascondono scarsa considerazione per la storia del genere, per il suo valore catartico e per i meccanismi più istintivi del' intrattenimento cinematografico. Green non ha il minimo interesse infatti nel raccontare qualcosa di avvincente in termini di suspense e relega la mistery a un flashback sbrigativo nel quale si accennano le ragioni della rabbia soprannaturale di Victor Cradley, mostro esattamente a metà strada tra Freddy di Nightmare e Jason di Venerdì 13 (entrambi omaggiati dai ruoli di Robert Englund e Kane Hodder), con uno sguardo ovviamente all'imprenscindibile Non aprite quella porta. Quello che interessa al regista americano è dare in pasto ai fan un prodotto truculento e ricco di ironia, ammantato di una nostalgia per l'orrore che fu, un po' come fece Eli Roth per Cabin Fever, prima che le sirene di un certo tarantismo di maniera ne affievolissero la carica "eversiva". Obiettivo riuscito perché il film scorre senza annoiare e mette in mostra anche un certo talento di Green per la messa in scena, i dialoghi e soprattutto le situazioni nonsense, stemperando sempre con l'humour nero l'inverosimile. I momenti forti sono numerosi e ben orchestrati dal mago degli effetti John Carl Buechler, icona della vecchia scuola insieme a Tom Savini e Rick Baker, che ridà ossigeno al verbo horror più inventivo e artigianale, che troppo manca nelle produzioni mainstream.