Recensione Fuori controllo (2010)

Fuori controllo è un ottimo esempio di cosa stia diventando il thriller politico hollywoodiano. Tra le coltri di un classico crime-movie tutto paranoia e cospirazione, emerge una pasta exploitation che finisce per diventare il punto di forza di un film intrinsecamente sociologico.

La vendetta di Thomas Craven

Il connubio cinema e vendetta è - e resta - una delle chiavi di lettura più ricche ed esaustive della produzione contemporanea. Bocciato soventemente e sbrigativamente come il risultato di pruriti beceri e spettacolari, quando non moralmente deprecabili, il tema della vendetta è da sempre lo specchio dei segnali politici e delle problematiche sociali della nostra società. Sotto questo profilo, Fuori controllo apre la strada a numerose e interessanti riflessioni, dimostrandosi un ottimo esempio di cosa stia diventando il thriller politico hollywoodiano, allentata quasi definitivamente la morsa pedagogico-rassicurante a favore di un nichilismo debordante che riduce le possibilità della salvezza solo al mondo onirico. Segno di un'inquietudine che va perfino oltre il rodato meccanismo di intrattenimento mainstream, generandone uno slittamento incontrollabile.

Tratto dalla miniserie inglese Edge of Darkness (anche titolo originale del film), prodotta dalla BBC nel 1986, Fuori controllo racconta di Thomas Craven, investigatore della polizia di Boston, il cui unico amore incondizionato va per la figlia Emma, che ha cresciuto da solo. Da tempo trasferitasi nel Massachusetts, Emma ha nascosto al padre di occuparsi di nucleare, come ingegnere, presso la Northmoor, nella cui gestione collidono loschi e pericolosi interessi. Giunta a Boston in visita al padre, Emma viene uccisa da un killer, instaurando il dubbio nel detective che la pallottola fosse destinata a lui. Ma la somma di numerosi indizi, portano Thomas nei meandri di un intrigo politico-finanziario con ramificazioni a tutti i livelli.
Martin Campbell (shooter di grande lusso con il comprovato talento per l'azione) mette in scena un gioco di specchi e rimandi molto interessante per questa sua volontà di ibridare, anche stilisticamente, la tipica struttura narrativa del thriller e i suoi classici rimandi alla paranoia e alla cospirazione, con un semplice e diretto vengeance-movie senza molti fronzoli, affidando a Mel Gibson un ruolo che è l'esemplificazione delle due istanze. L'attore australiano recepisce il messaggio e dopo otto anni ritorna a recitare il ruolo di un solitario che scardina il sistema, semplicemente perché non ha più nulla da perdere dopo l'omicidio della figlia. E lo fa adeguandosi al verbo vendicatorio del film, funzionando meno quando ha in mano la detective, preferendo raccontare il dramma della perdita più cara, piuttosto che la scaltrezza investigativa datagli della disperazione.
L'accettazione della corruzione etica e del dominio dell'interesse economico è semplicemente data in Fuori controllo. Per questo il percorso morale del protagonista, scontrandosi con una realtà inimmaginabile, non si macchia (al di là degli usuali accenti macho) di enfatizzazioni eroistiche, ma è solo un viatico a una catarsi che non da spazio fortunatamente a un happy end che risulterebbe posticcio e fuori luogo. Incipit e finale sono infatti i punti di forza assoluti di un film che mostra qualche debolezza in una caratterizzazione banale e tipicamente maligna del potere (alcuni raccordi sbrigativi sono anche probabilmente il risultato di un'adattamento da una serie molto più lunga e approfondita), ma che si mostra capace di spietati lampi di violenza in stile rape and ravenge e in piena aderenza a un'estremizzazione grafica, una volta marchio di fabbrica del cinema bis. Il collante stilistico è dato dalla regia ispirata di Martin Cambell che forse eccede in qualche formalismo ma che elabora una sintesi tra eleganza e rabbia di grande pregnanza.