Recensione Crazy Heart (2009)

Scott Cooper sfrutta il suo background d'attore per costruire una messa in scena il più possibile funzionale all'autenticità espressiva degli interpreti. E riesce nell'impresa di realizzare probabilmente il miglior 'film d'attori' di questa stagione, offrendo al leggendario Jeff Bridges l'Oscar sul piatto d'argento.

Anche i Drughi amano

L'accostamento è inevitabile. Anzi, il regista e sceneggiatore Scott Cooper sembra un po' furbescamente giocarci sopra, presentandoci il suo protagonista proprio in una squallida sala da bowling, intento a ordinare whiskey e birra. Scarmigliato, malmesso, jeans sdruciti e perennemente sbracati, un cappello floscio che fa sentire tutto il peso dell'età. Se non fosse per la preferenza del whisky al posto del White Russian, chi potrebbe essere Bad Blake se non la versione più attempata e disillusa, più dolente e sofferta, del leggendario Drugo di coeniana memoria? Jeff Bridges - leggenda vivente egli stesso, al punto da rendere ormai inestricabile la distinzione tra interprete e personaggio - incarna in Crazy Heart un'altra figura profondamente ancorata nella cultura americana.

Ma mentre il "Dude" de Il grande Lebowski era figlio della controcultura hippie (senza un passato, né un futuro), il Bad Blake di Crazy Heart affonda le sue radici nella musica country, ovvero nella storia stessa degli Stati Uniti. Blake è un uomo che invece vive nel passato, e sembra non avere più un futuro. Stella del country ormai in declino, quattro rovinosi matrimoni alle spalle e un figlio mai davvero conosciuto, a 56 anni suonati si trascina ormai in un'esistenza da relitto. I primi minuti di film lo mostrano esibirsi in un campionario di rara abiezione: completamente obnubilato dall'alcol, esegue una performance canora in un locale di infima categoria, finendo addirittura per star male durante il concerto e per andare a letto con una "groupie" quasi ottuagenaria. Blake arriva a raggiungere persino il punto più basso della sua carriera artistica, riducendosi ad aprire il concerto del suo ex discepolo Tommy Sweet, che nel frattempo lo ha scalzato diventando una star della moderna country music. Ma, come insegna la mitologia americana, e quella del country e del western in particolare, tutti hanno una second chance: a ognuno di noi è concessa una possibilità di rinascita, basta solo trovare un motivo per andare avanti. Per Blake il motivo è Jean Craddock (Maggie Gyllenhaal), aspirante giornalista e mamma single con un passato da dimenticare. Come da migliore tradizione hollywoodiana, due dropout sconfitti dalla vita che trovano la forza di reagire l'uno nell'altra. Forse per Blake è l'occasione di correggere gli errori del passato, di scoprire finalmente l'amore e di sperimentare la gioia di essere padre. Anche se non è tutto così semplice come può sembrare.
Diversamente da registi come Darren Aronofsky (che con The Wrestler si è servito del tradizionale percorso di redenzione per aprirsi a sottotesti più ampi, anche di stampo religioso), o come Robert Altman (che nei sui film impiega il genere country come strumento per riflettere sulla cultura popolare americana), Scott Cooper non mostra di avere pretese d'Autore. Suo interesse è, semplicemente, quello di raccontare una storia minima in cui la musica è il veicolo per la trasmissione dei sentimenti, avvicinando con compassione il suo sguardo sui personaggi. Tratto dal romanzo di Thomas Cobb, Crazy Heart è in realtà un racconto piccolo piccolo, in cui ad avere importanza più che la sceneggiatura in senso tradizionale sono i testi delle canzoni, composte per l'occasione da T-Bone Burnett e cantate realmente da Jeff Bridges.

Scott Cooper sfrutta il suo background d'attore per costruire una messa in scena che sia il più possibile funzionale all'autenticità espressiva degli interpreti: numerosi campi e controcampi, macchina da presa ravvicinata, insistiti primi piani. E riesce nell'impresa di realizzare probabilmente il miglior "film d'attori" (senza che questo termine abbia alcuna accezione sminuente) di questa stagione, non solo offrendo a Jeff Bridges l'Oscar sul piatto d'argento, ma scegliendo con cura anche gli ottimi comprimari, dalla partner Maggie Gyllenhaal, fino ai cammei di Colin Farrell e Robert Duvall. E se nella scorsa edizione degli Academy Awards Mickey Rourke non ha potuto coronare il suo sogno di riscatto aggiudicandosi la statuetta, quest'anno di certo il Drugo avrà ottime possibilità per prendersi una bella rivincita. Una sola domanda: festeggerà tracannando whiskey texano oppure White Russian?