Recensione Baciami ancora (2009)

Alla bravura e maturità registica di Muccino si somma la capacità di riunire per il grande schermo un cast che conferma alcuni attori italiani come i più bravi del cinema contemporaneo.

Italian Beauty

Quarant'anni e sentirli! Se dopo L'ultimo bacio dieci anni fa il regista Gabriele Muccino era stato più volte accusato di aver voluto portare sul grande schermo le storie generazionali dei trentenni italiani di turno, la certezza che anche il suo sequel, Baciami ancora, sarà subissato da nuove querelle sociologiche è quasi da pronostico calcistico della domenica mattina. Ma se è vero che la pellicola che aprì gli occhi agli spettatori nati nel post '68 sul punto della situazione negli anni 2000 li lasciava forse disorientati dalla patina così spietatamente realistica della sceneggiatura, non si potrà negare che gli stessi adesso dovranno asciugarle le ciglia ma solo per emozione. Eppure non è un'illusione della felicità che Muccino ci regala, strappandola a quell'ingenuità di cui forse aveva peccato in passato: al contrario, Baciami ancora è un film sull'orlo della crisi che s'accanisce contro di noi e la nostra nazione. Muccino affina quella coscienza critica che lo aveva portato inizialmente ai riduzionismi schematici e alle semplificazioni stereotipate che avevano viziato la riuscita de L'ultimo bacio e mette in scena un melodramma in cui il confronto con la realtà e l'urgenza dei sentimenti sono elaborati con una tensione perfino dolorosa. L'esistenza dei nostri tempi è diventata la resistenza ai nostri tempi: la crisi nazionale, più volte citata senza neanche tanti ammiccamenti, si riflette sulle fragile psicologie dei protagonisti, non più confuse sagome ombrose di italiani medi che si perdono tra i più intimi squilibri e le più bieche incertezze bensì personaggi delineati chirurgicamente, e ne svilisce le energie restituendole in crisi dei sentimenti.

Pur virando pericolosamente intorno al binomio cuore-amore, su cui gli attuali reality televisivi costruiscono massici imperi mediatici, Baciami ancora dilata la sua dimensione centrale approfondendo quella delle paure e dei desideri più irrazionali che minano le stabilità già precarie del nostro secolo e della nostra società con un cinismo tipico della commedia all'italiana e con una sensibilità morbida ma mai burrosa, che evita a Muccino le trappole del sentimentalismo facile su cui le prime opere avevano incespicato. Dimenticati i teatrini e il campionario di strilla nevrotiche e gridolini isterici delle coppie Carlo-Giulia e Adriano-Livia, la marijuana quotidiana del più stravolto del gruppo, Alberto, le pene familiari del depresso Carlo, i sorrisi beati del neosposo Marco, Baciami ancora capovolge le relazioni "pericolose", ma non ne inverte le tendenze, al contrario le avvalora nel segno dell'attualità, del sapore amaro su cui un popolo come il nostro riesce perfino a ridere. E Muccino sa farci ridere a volontà grazie a una scrittura più matura, e meno romanzesca, che, se annaspa ancora in una semplicità dei dialoghi talvolta al limite della banalità da quattro chiacchiere al bar, si ritaglia uno spazio più intenso con le psicologie dei personaggi, più incisivi nelle loro normali anormalità affettive e, finalmente, più distanti dagli stampini individualistici alla Trainspotting.
Le pulsioni d'amore e di morte che si snodano in questa tragicommedia umana non sono più affidate a prevedibili intoppi narrativi: Baciami ancora è probabilmente il film più rischioso che Muccino potesse realizzare proprio perché espone i suoi personaggi a un prolungamento che, scavando nell'anima, ne mette a nudo i pregi e le debolezze. Carlo non è più l'uomo che allo stallo dei 30 ha una scappatella con una liceale, ma è un padre responsabile con compagna al seguito. Pensando alla sua parte non va dimenticato che se il capostipite riferiva in qualche modo il suo titolo a quello dell'amante, "Baciami ancora" si lega questa volta alla donna e madre ritrovata. Giulia non è più la fredda calcolatrice che controlla e pianifica la vita coniugale, ma è una donna che ascolta i suoi istinti e cede alla sua passione. La coppia cresce e affronta peripezie che s'ingigantiscono mentre si palesa la soluzione finale, ma soprattutto quello che si riflette nei loro atteggiamenti è un senso di protezione verso l'infanzia, deus ex machina salvifica, che rivela un'evoluzione lampante. Le dispettose scaramucce dei due, a un passo dal divorzio, piano piano si assopiscono non solo per conciliarci con l'happy end in agguato, che, in realtà affonda un malsano senso dell'ottimismo ben prima del luminoso e idilliaco ritratto delle famigliole felici e candide: i microcosmi corali di Baciami ancora si ricongiungono tutti a un fil rouge comune, al groviglio di conflitti tra padri e figli.
La coppia Marco-Veronica rispecchia quella formata da Carlo e Giulia all'inverso: la maternità diventa infatti la causa dei mali e complica le carte in tavola. Al contrario però di quello che potrebbe sembrare, specialmente se si giudica dalle battute politically incorrect utilizzate da e contro Marco, la direzione della tradizione viene completamente invertita. È in questo rovesciamento che sta uno dei maggiori guizzi della sceneggiatura di Gabriele Muccino grazie al quale, nell'esatto momento in cui il dramma sta per annientare il personaggio, arriva la sua ancora di salvezza progressista. Stessa dote rincarata di coraggio quella dimostrata con Paolo, il personaggio più angosciato e angosciante del gruppo, che ruba la scena con il suo crollo emotivo e sottrae senza troppe difficoltà il potenziale emozionale al borderline Adriano. La storia di Paolo vela di malinconia la vibrante seconda parte del film, ma di-mostra una notevole abilità che manca a tanti altri script contemporanei, quella di unire tinte forti e di segno opposto senza limitare lo stile visivo, senza renderlo altalenante o discontinuo.
La bravura tecnica del regista che avevamo lasciato partire "alla ricerca della felicità" oltreoceano si misura, oltre che con una rigenerata padronanza narrativa, con una notevole maturità espressiva: Muccino esibisce un linguaggio visivo poco familiare agli habitué dell'odierno cinema italiano, con inquadrature che guadagnano spazio mentre i protagonisti, a una certa distanza, soffrono per le claustrofobiche ansie che attanagliano l'anima. Ma lo fa con piglio esperto e in più riprese con un'autoreferenzialità che calca una modalità tipicamente americana. Indovinatissima anche la canzone sui titoli di coda di Jovanotti, commissionata dal regista e perfettamente in tono con una colonna sonora dolce e melanconica, come le immagini della città eterna.
Alla sua destrezza registica si somma la capacità di riunire per il grande schermo un cast che conferma alcuni attori italiani come i più bravi del cinema contemporaneo: Muccino arruola una troupe di professionisti che esplodono sullo schermo con le loro singole entusiasmanti interpretazioni. Tra l'accigliato Stefano Accorsi, la brava Vittoria Puccini, in grado di non far rimpiangere la Giulia di Giovanna Mezzogiorno, complice anche un cambiamento netto del personaggio da copione, la simpatica Sabrina Impacciatore, che si lancia con sorprendente naturalezza nelle scene di maggiore pathos e Giorgio Pasotti, che nasconde dietro uno sguardo bonario e un sorriso flebile la sofferenza e la tensione di un _clochard _metropolitano spiccano un Pierfrancesco Favino esilarante e alleniano in un ruolo grottesco che sembra uscito da un film di Dino Risi, uno strepitoso Claudio Santamaria, che riesce a evitare i rischiosi tic nevrotici con cui Paolo, il suo personaggio, avrebbe potuto esprimersi, e la matura Valeria Bruni Tedeschi che nella sua piccola parte è capace d'incantare il pubblico con un naturalismo superlativo.