Recensione Arthur e la vendetta di Maltazard (2009)

Con 'Arthur e la vendetta di Maltazard' il regista Luc Besson dà prova di coraggio e dinamismo intraprendendo il suo secondo viaggio nel mondo del fantasy e dell'animazione e coniugando umorismo e tenerezza in una favola ecologica dal ritmo rap.

Il piccolo principe

Pensato forse più per i suoi figli che per gli spettatori e i fan di una vita, il nuovo film del regista francese Luc Besson segna il ritorno al fantasy fatato e mellifluo nel quale aveva fatto incursione con la carta prima e con i modellini in 3D poi. Arthur e la vendetta di Maltazard è infatti il secondo episodio della trilogia cui Besson aveva dato vita nel 2002 con il romanzo Arthur e il popolo dei Minimei, da lui stesso adattato poco dopo per il grande schermo. Besson ci consegna la risposta europea all'animazione a stelle e strisce: come Peter Jackson l'autore del lontano e fortunato Nikita tenta la strada dell'innovazione in patria, affidandosi alla mitologia nordica che rivisita e ammoderna con entusiastica creatività e inconfondibile piglio ironico. Con quest'ambiziosa operazione il regista sembra aver riposto nell'armadio la sua tenuta d'intrepida canaglia del pulp francese per addentrarsi in un mondo fiabesco in cui un antropomorfismo d'antan si mescola come in un patchwork inglese a un bestiario esopico filtrato da una fotografia caleidoscopica e a una dimensione tangente a quella folkloristica europea abitata da gnomi ed elfi.

La storia di Arthur è descritta dalle immagini suggestive e dalle trame di luci e colori che definiscono per contrasto, lecito e mai manicheo, due universi distinti, impressione di un mondo che riesce a serbare uno spazio giusto per ogni realtà: così "sopra" incontriamo Arthur, i suoi strampalati genitori e i cartoonizzati nonni, mentre nascosta, ma stavolta neanche tanto, nel bosco vive la tribù dei Bogomatassalai, vatussi statuari e paladini della natura, "sotto" le dimensioni si rimpiccioliscono, la fantasia si dilata nello spazio e l'umanità è parodiata da strane fattezze e bizzarre movenze. Arthur è tornato nella casa di campagna dei suoi adorati nonni, intenzionato ad aspettare la decima luna per tornare dai Minimei e riabbracciare la principessa Selena, ma suo padre ha deciso di anticipare la partenza. Il giovane e impacciato ragazzino, interpretato dal bravo Freddie Highmore, aveva appena ricevuto un messaggio di SOS, che lui crede sia stato inviato dai suoi piccoli amici e, deciso a prestare il suo aiuto, scappa durante il viaggio di ritorno a casa. La sua avventura nel mondo incredibile in cui si trasforma in un principe temerario e innamorato, un Harry Potter miniaturizzato in grado di cavalcare bestiole mirabolanti, è scandita da un ritmo iniziale strepitoso che permette allo spettatore un'efficace e repentina incursione nel mondo sotterraneo dei Minimei. Una lunga e travolgente sequenza dotata di ricchezza visiva e virtuosismo tecnico apre un film che si preannuncia subito come un connubio ben riuscito tra live-action e animazione, ma le promesse vengono presto tradite: l'azione e il ritmo subiscono una decelerazione inaspettata e i toni dell'avventura del minieroe e dei suoi compagni si affievoliscono mentre la storia s'inceppa senza una reale evoluzione progressiva.

Se lo sviluppo narrativo di Arthur e la vendetta di Maltazard è coerente con il predecesspre e ha il merito di arricchire il profilo dei suoi, piccoli e grandi, protagonisti, estendendo la potenza visiva delle immagini attraverso un notevole miglioramento tecnico, resta invece incostante la struttura dell'intero film, che manca di un autentico motore drammaturgico. La parzialità, ahinoi pretesa e precisamente architettata, non permette a Besson lo svolgimento di un compito che risulta così inficiato da due difetti che nemmeno i migliori pregi mitigano a sufficienza, come quel buonismo programmatico, che aveva già marchiato un film come Angel-A, e la fumosa incompiutezza che rende l'episodio più simile a una protesi del film successivo che a un film "completo". Il maligno Maltazard, nemico giurato dei piccoli Minimei e artefice d'inarrestabili piani diabolici, vedi la vendetta cui quest'episodio risulterebbe dedicato, finisce per apparire solo in una comparsata ultrarapida, che sminuzza anche la verve del cattivo potente, al punto che i baby spettatori non sentiranno l'impetuosa minaccia del male oscuro arrivare a impaurirli e il pubblico adulto che li ha accompagnati attenderà senza eccessiva preoccupazione l'ultimo episodio della trilogia.

Sebbene forse precipitato con le scelte poco azzeccate dei ricorsivi flashback centrali, che confondono le idee ai bambini e spazientiscono i grandi, e della zoppicante cesura finale, che arranca nel piattume della prevedibilità, Arthur e la vendetta di Maltazard riesce tuttavia a dare prova del coraggio e del dinamismo di monsieur Besson: il regista ha intrapreso con quest'episodio un viaggio in un mondo che probabilmente ai tempi di Léon, quando ancora non era pater familias, non gli sarebbe sembrato neanche plausibile con tutte quelle formiche clandestine e quei ragni "teneroni" e ha dimostrato di sapersi confrontare con un genere che spesso rischia di tramutarsi in una lama a doppio taglio. È vero che con Arthur e il popolo dei Minimei si era completamente lanciato in un'impresa semieroica, considerata l'inesperienza nel settore dell'animazione e lo stato di salute del cinema europeo fantastico, ma non si può certo negargli il merito di essere cresciuto tecnicamente. Ne è dimostrazione la sequenza più incantevole del film, quella di Paradise Alley, un sapiente e divertente mix visionario tra un avamposto cyberpunk di Las Vegas e la trasgressiva e squalliduccia Pigalle affollata da creaturine che sembrano scaraventate nel regno dei Minimei direttamente da Star Wars e da rapper che canticchiano la disco music di Lady Gaga. Il film funziona bene dietro la lente d'ingrandimento visiva, che riesce a compattare nell'animazione digitale l'umorismo sovversivo di Besson, che ammicca con continui riferimenti e citazioni probabilmente troppo colte per il suo nuovo pubblico e, al rallentatore microscopico (sembra quasi che il regista sia più a suo agio con il mondo di "sotto"), ingrana benissimo la marcia giusta della tenera causa ecologica, degna dei più genuini cartoni animati e parte integrante di una tautologia bessoniana neanche tanto recente, vedi Le grand bleu. Il merito maggiore sta dunque nell'aver provato a conciliare la parabola zuccherosa sul regno della natura, così vivido e spettacolare nella sua purezza incontaminata, con le scapigliate e sfrenate creature che popolano un fantastico e rutilante mondo burlesque, almeno quanto l'insolente chef napoletano Prosciutto!