Recensione Chi l'ha visto (2009)

La regista oscilla tra un caldo piglio documentaristico, reso con effetto sicuro sul grande schermo dall'estrema vicinanza della macchina da presa ai corpi e ai volti dei personaggi, che in certe inquadrature ci sembrano quasi palpabili, e un metallico stile amatoriale espresso dalle incertezze della steadycam nelle direzioni sghembe.

Era mio padre

Road movie a metà tra documentario e fiction, Chi l'ha visto è un'opera interessante che fa della contaminazione tra codici linguistici diversi un punto di forza in grado di sospingere una storia familiare gravida di pathos. Diretto dalla fotografa berlinese Claudia Rorarius e interpretato dall'attore di musical tedesco Gianni Meurer, nel ruolo di se stesso, Chi l'ha visto ci scaraventa nel dramma di un figlio alla ricerca del proprio padre e ci conduce negli abissi della sua disperazione.

Finzione e realtà si mescolano e s'intrecciano sorprendentemente come in una matrioska: l'attore protagonista interpreta se stesso e ri-vive sul set la propria storia, quella di un giovane di madre tedesca che è stato abbandonato dal padre italiano e vorrebbe ritrovarlo a distanza di anni. La biografia di Gianni viene dipanata a partire dal suo profilo psicologico: un ragazzo omosessuale intorno ai trent'anni appassionato di musica, specie quella leggera italiana, che si gode i piaceri fugaci della vita in locali notturni dell'underground berlinese, tra gli avanzi della società e la magica polverina bianca. Gianni decide di partire in auto, solo con la propria determinazione e con l'aspirazione a un'identità tricolore che sente viva e cerca di esprimere come può, indossando t-shirt delle squadre locali o appiccicando sul cruscotto un adesivo patriottico. Prova allora, dietro consiglio di un uomo cui aveva mostrato la foto del papà da giovane, un ex giocatore professionista di palla a mano che tutti trovano somigliante ad Alain Delon, a rivolgersi alla trasmissione Chi l'ha visto? Le sue ricerche però saranno molto più difficili di quanto immaginava.

Il viaggio da lupo solitario, con una breve parentesi di compagnia, tra le vallate del nord e le autostrade bagnate dalla grandine permette al protagonista di scoprire la bellezza dei paesaggi nostrani, che la cineasta ritrae con grande intensità visiva, complice anche la sua esperienza come fotografa, autocitata con il ricorso ai numerosi scatti di Gianni disseminati lungo il suo percorso come briciole da recuperare al ritorno. Il suo cammino è anche intimo: il ragazzo si aggrappa alla speranza di conoscere suo padre per lanciare un sondino nella propria soggettività, ancora fragile e in formazione. La regista oscilla tra un caldo piglio documentaristico, reso con effetto sicuro sul grande schermo dall'estrema vicinanza della macchina da presa ai corpi e ai volti dei personaggi, che in certe inquadrature ci sembrano quasi palpabili, e un metallico stile amatoriale espresso dalle incertezze della steadycam nelle direzioni sghembe. Tutto sembra trasversale e in qualche modo grumoso in questo film, assorbito da una patina plumbea esattamente come il finale con il suo precipitato di profonda angoscia e il suo concentrato di notevole intensità.