Recensione Nowhere Boy (2009)

Un'opera che parla di rock eppure non si profila come un'opera-rock. Sam Taylor-Wood asseconda in scioltezza le sfumature irriverenti e crepuscolari di un dissoluto John Lennon adolescente, dotato di verve indisciplinata e di un'intelligenza e una sensibilità che ne hanno fatto un ragazzo tormentato e un musicista leggendario.

Rock'n'boy

Concettuale, sensazionale ed emozionale, l'artista londinese Sam Taylor-Wood traslittera il suo personale, valido e già apprezzato contributo visionario dalla video arte al sistema cinematografico: il suo approccio è garbato, semplice e svincolato da certi schematismi visivi leziosi e ricercati. La forma è americana, la tonalità puramente british: scalfisce le tematiche a lei care, come la solitudine, l'isteria e l'euforia nei rapporti interpersonali, ri-esplorandole sul grande schermo tra gli anni ruggenti del ribelle John Lennon e i drammi familiari srotolati e implosi tra le fragili mura domestiche, il rock'n'roll anni '50 e un'incontrollabile e trascinante poetica voglia di libertà.


Liverpool, 1955. John Lennon ha quindici anni e vive una certa insofferenza sovversiva verso le convenzioni ieratiche della società britannica e le regole precostituite dell'austera zia Mimi, con la quale vive da quand'era piccolo. Dopo la dolorosa morte di suo zio George, spinto da un grande intuito, si riavvicina alla madre, una donna fuori dagli schemi, che si ciba di musica rock e gli aprirà le porte percettive di una nuova dimensione, che gli permetterà di esprimere il suo spirito erratico e lo renderà un genio incontestabile: la musica.

Nowhere Boy è un'opera che parla di rock eppure non si profila come un'opera-rock, come lo era invece stato Across The Universe. Sam Taylor-Wood asseconda in scioltezza le sfumature irriverenti e crepuscolari di un dissoluto John Lennon adolescente, dotato di verve indisciplinata e di un'intelligenza e una sensibilità che ne hanno fatto un ragazzo tormentato e un musicista leggendario. Il suo stile è essenziale, rigoroso e privo della surreale visionarietà della sua arte: l'unità narrativa sembra voler quasi bilanciare la frammentazione interiore dell'identità del protagonista. E le tonalità assai soffici, trattenute per certi versi, dell'impianto filmico, alternate agli scorci onirici che invece rimandano specialmente alla tautologia della "New British Art", sorprendono lo spettatore: la regista racconta una storia indubbiamente commovente temperando anche semplificazioni lucide e mai riduttive, come quelle che dispiegano l'indotto familiare, che non catalizzano la visione né il giudizio. Riesce così a ricomporre un ritratto dell'artista da giovane con una vibrante intensità, allontanandosi dagli stilemi narrativi canonici che avrebbero potuto viziare l'opera prima e addensando le immagini in un tono trasversale, di distanza partecipe che restituisce, attraverso lo humour inglese delle battute brillanti e delle incisive psicologie dei protagonisti e il sottotesto musicale di Elvis Presley, un'immagine romantica, e non sentimentale, del Lennon pre-Beatle.
Sottratto il fantasma epocale della controcultura di una più grigia Liverpool, della trasgressione generazionale oltre le bravate giovanilistiche e dei contesti sociali raffermi nelle trame relazionali, resta il miracolo di una purezza che gli attori, dalla rivelazione Aaron Johnson, protagonista assoluto del film, al bravo e niveo Thomas Sangster (Love actually - L'amore davvero) nel ruolo di Paul McCartney, alle prime donne Kristin Scott Thomas e Anne-Marie Duff, riescono ad assorbire come spugne talentuose e a donare al pubblico con una carica di energia metafisica che ricorda piacevolmente e senza nostalgia quella di cui furono capace Lennon e la sua musica.