Terracciano e Castellitto a Venezia con Tris di donne e abiti nuziali

Presentata nella sezione Orizzonti di Venezia 66, la commedia interpretata da Sergio Castellitto e Martina Gedeck racconta una inedita Napoli piccolo-borghese in cui si muove una famiglia allo sbando. Regista e attori hanno incontrato la stampa per parlare del processo di realizzazione del film.

Avevano già lavorato insieme in Ricette d'amore il nostro Sergio Castellitto e la tedesca Martina Gedeck. A distanza di sette anni, i due attori si ritrovano protagonisti di Tris di donne e abiti nuziali, commedia diretta da Vincenzo Terracciano, presentata nella sezione Orizzonti alla 66a Mostra del cinema di Venezia. La storia è quella di un impiegato cinquantenne napoletano con moglie tedesca, che ha nel gioco (che sia il poker, i cavalli o la roulette) la sua più grande debolezza. Ambientato nella Napoli piccolo-borghese del Vomero, il film rinverdisce i fasti della grande commedia all'italiana con incursioni nel dramma. Regista e cast, che comprende anche i giovani Paolo Briguglia e Raffaella Rea, hanno incontrato oggi la stampa presente al Lido.

Vincenzo Terracciano, quando è nato il progetto e come ha sviluppato l'idea?

Vincenzo Terracciano: Le storie spesso nascono per caso e così pure questa. Otto anni fa mi è venuta l'idea di raccontare la vita di un giocatore, poi man mano la penna è andata avanti e ha costruito altre cose. Più che raccontare il valore e l'istituzione di una famiglia, mi interessava raccontare i sentimenti e le debolezze che la regolano. Ho creato il personaggio di un giocatore che fosse un uomo semplice, piccolo borghese, normale, messo davanti a scelte estreme, e capace di assumersi le responsabilità di queste scelte. L'idea del giocatore romantico non è assolutamente nel personaggio di Franco Campanella.

La sua è una vera commedia italiana con un finale duro e coraggioso. Qual è il suo rapporto in questo senso con la tradizione?

Vincenzo Terracciano: Il finale è sempre stato il punto fermo del film, che nasce proprio da quell'immagine finale: il naufrago che guarda il delirio del mare. Mi sento figlio di una tradizione, ma chi non lo è quando fa questo lavoro? Io accanto ai grandissimi, metto i Germi, i Comencini, i Monicelli, che raccontavano la realtà tenendo presente tutto quello che la definisce. Se c'è un sorriso c'è un sorriso ma anche la tragedia. Il mio vuol essere un grande omaggio alla commedia italiana, quella non ridanciana.

Su Napoli si dicono tante cose, a proposito e a sproposito. In questo film c'è una Napoli del Vomero lontana da quella terribilista di Gomorra o da quella dell'aristocrazia, ma individuata in una linea di passaggio strettissima dove la contaminazione fa capire quale sia la complicità tra un certo tipo di borghesia e un certo tipo di città e dove anche questa complicità forma un modo di resistenza e di sopravvivenza.

Vincenzo Terracciano: Napoli è una città più citata che percepita, più teorizzata che letta. Non voglio aggiungermi al coro delle sue definizioni. Sono andato via da Napoli vent'anni fa e ho deciso di tornarci con una macchina da presa. Il Vomero è un quartiere borghese che mi interessava raccontare soprattutto attraverso queste figure che non avessero orpelli ulteriori, prese nella loro quotidianità. Per la scelta dei luoghi devo molto ai produttori che mi hanno permesso di cambiare all'ultimo momento la location perché quella che avevo scelto prima alterava l'idea visiva dello spazio. Il mio è un film tutto sulle scale, perché Napoli ha un su e un giù. Mi interessava il percorso, il limite, il centro, l'azione. E' stata una scelta anche estrema se vogliamo, perché è molto più semplice raccontare un fondo piuttosto che i gradini.

Sergio Castellitto: La differenza sostanziale con la Napoli "gomorresca" che è raccontata in maniera sublime è che quella è filmata, mentre la nostra è messa in scena. Questa Napoli viene raccontata con ombre e luci quasi checkoviane. E' un film sorprendente in cui non si vede il mare se non alla fine, in cui si vede una Napoli di montagna, dove bisogna salire e scendere le scale, invece che attraversare i vicoli. E' una vera novità visiva del film dentro una tradizione antica. Sono contento di aver interpretato un film che racconta una delle città più terribili, drammatiche e desolanti del nostro paese con uno sguardo talmente nuovo da diventare anche un po' spiazzante, ma oggettivamente molto inconsueto.

Sergio Castellitto, come ha costruito il suo personaggio?

Sergio Castellitto: Io parto sempre dal comportamento più che dalle parole che il personaggio dice. Ho voluto fare un omaggio umile ma anche ambizioso ai grandi attori-scrittori italiani, come De Sica, De Filippo, Germi. In questo senso ho pensato a certi tic, a certi baffi, a certi modi di muovere la mano, un atto d'amore verso quegli attori che mi hanno insegnato la passione per questo mestiere, la miseria e la nobiltà della recitazione.

Quanto è importante oggi lavorare su una dialettalità che non è agiografica e folklorica, ma che è ricca di tante cose?

Sergio Castellitto: E' stata montata una polemica finta a proposito del dialetto, di natura politica piuttosto che culturale. Il cinema italiano ha sempre parlato dialetto: che lingua parlavano I soliti ignoti? La lingua napoletana, la lingua friuliana, la lingua veneta, la lingua lombarda, ci sono sempre state nel cinema.

Vincenzo Terracciano: Il lavoro fatto con gli attori è stato straordinario, perché non cercavo il napoletano. Raccontavo il piccolo borghese che parla con un'inflessione, fa italianismi e in questo senso il lavoro di Sergio e Martina sfida ogni legge della fonetica: ascoltandoli hai un assoluto senso di credulità. I loro personaggi non dovevano parlare napoletano, perché appartenevano a una borghesia che italianizza tutto con un retrogusto in cui si sente il senso della napoletaneità. Sono stati fantastici in questo lavoro di mimesi che rappresentava la mia grande preoccupazione, perché sono stati capaci di riprodurre quel suono tipico del napoletano e non il dialetto che non mi interessava.

Qual è stata l'esperienza per gli altri attori nel partecipare a questo film?

Martina Gedeck: Quando abbiamo cominciato a parlare della parte, Vincenzo mi ha detto che voleva una donna che rappresentava le qualità del mondo moderno. E' una donna che rappresenta la fede, non solo in un senso religioso. Lei crede in qualità umane come la fiducia, il fatto di poter contare sull'altra persona. Nel prepararmi al ruolo, mi hanno aiutato molto gli altri attori, in particolare Sergio che ha saputo tirar fuori da me la mia parte estroversa, furiosa ed emozionale, e questo è stato piuttosto utile mentre giravamo le scene. E' stato facile per me calarmi in questo ruolo, grazie anche al supporto di Vincenzo che conosce Napoli molto bene. Nessuno mi aveva detto come fosse veramente Napoli: quando sono arrivata lì ho respirato l'atmosfera e ho cercato di tradurla nel mio personaggio.

Paolo Briguglia: La prima cosa che mi è venuta in mente partecipando a questo film sono stati questi bellissimi film di De Sica che raccontano storie familiari, ma contemporaneamente universali. Per me inoltre Castellitto rappresenta una fonte di ispirazione da sempre e per questo ho provato una grande gioia nel trovarmi sul set con lui e con questo cast straordinario.

Raffaella Rea: Essere la figlia di Sergio Castellitto e Martina Gedeck fa un po' impressione. E' stato bello interpretare questo rapporto padre-figlia, anche perché per la prima volta potevo vivere la mia provenienza, essendo io di Pomigliano d'Arco, un paese in provincia di Napoli. La cosa interessante di questo film sono i modi diversi in cui ogni componente della famiglia reagisce alla natura del protagonista. Tra il padre e la figlia c'è un grande rapporto d'amore, anche un po' difficile da definire, ma il messaggio più bello che passa attraverso questa tipologia d'amore è questo: "io voglio insegnarti con tutto me stesso a difendere la tua anima".