Recensione La doppia ora (2009)

L'illuminazione al film la fornisce la scaltrezza di una trama che procede per finissimi twist che definiscono l'impossibilità di una storia d'amore strozzata dalle cattive intenzioni.

Niente è come sembra

Quando il cinema italiano, negli ultimi anni, ha tentato la via del thriller ha collezionato una serie di clamorosi flop risultando essenzialmente ridicolo: i meccanismi di costruzione della suspense sono una materia misteriosa che i nostri registi sembrano ignorare completamente. Ci prova ora un esordiente ad approcciarsi al genere, senza però lasciarsi fagocitare dall'ansia della tensione e del brivido forzato. Il quarantunenne Giuseppe Capotondi debutta e convince a Venezia 66: La doppia ora è di gran lunga il miglior film italiano visto quest'anno in concorso, seppur non scevro da difetti compromettenti. L'illuminazione stavolta la fornisce la scaltrezza di una trama che procede per finissimi twist che definiscono l'impossibilità di una storia d'amore strozzata dalle cattive intenzioni. Il genere si piega quindi alle esigenze di un racconto più complesso che lavora su diversi piani e affonda nella solitudine e nelle tribolazioni dei suoi protagonisti.

Capotondi riesce a costruire con grande abilità un thriller psicologico profumato di melò che capovolge di continuo la prospettiva: il dubbio si impossessa rapidamente dello spettatore, che è costretto a sospendere il giudizio sui protagonisti a causa di un ribaltamento non stop delle loro posizioni, in particolare quella della dark lady Kseniya Rappoport, personaggio fortemente ambiguo intriso di malinconia. Ci si lascia così trascinare dagli eventi che fremono dei toni tipici del noir per delineare una storia d'amore che vive di accenni e respiri trattenuti. L'opera di Capotondi tende a confondere, a partire dalla commistione di generi che opera, in un avvincente gioco di specchi con il disordine che alberga dentro i protagonisti. Il film non si può quindi considerare risolto in nessuno dei suoi aspetti, trovando in questo un limite notevole, perché difetta di quell'intensità che l'avrebbe definitivamente nobilitato.

L'azione si muove principalmente tra non-luoghi (l'albergo, l'ospedale, la stanza di vigilanza della villa) così come l'incontro alla base della storia si configura come un non-incontro: Sonia e Guido (interpretato da un Filippo Timi che è sempre un piacere ritrovare sullo schermo) vedono i loro destini intrecciarsi durante uno speed date. L'inizio della vicenda è poi da ritrovare in una morte, perché da quel momento in poi si mette in moto un meccanismo ad orologeria che produrrà una serie di credibili colpi di scena fino all'immagine rivelatoria finale. Perché ne La doppia ora nulla è come sembra e il regista e i tre sceneggiatori ce lo dimostrano continuamente, rivelando qualche fragilità soltanto durante una porzione di pellicola che soffre di una risoluzione alquanto banale. La bellezza del film è tutta nel suo ruotare attorno alla fatica di scontare i propri sensi di colpa e di risorgere dalla solitudine. La sceneggiatura volge sempre in quella direzione, giustificando così quelle che potrebbero apparire come incertezze. La realizzazione è poi corretta, mai eccessiva anche nelle parentesi più critiche, e delicata quando i sentimenti tendono ad esplodere. E' un buon primo passo per Capotondi, affinando la penna i risultati potranno essere ancora più brillanti.