Recensione Lo spazio bianco (2009)

Se il tema della maternità a rischio tocca più da vicino l'universo femminile, lo stile minimalista e l'energia impressa nella rappresentazione del personaggio principale dimostrano la volontà del film di rivolgersi a un pubblico ben più variegato e la misura che caratterizza il lavoro fa passare in secondo piano le sbavature nella confezione e qualche scena fuori misura.

Nascere due volte

Lo spazio bianco di Francesca Comencini convince l'esigente platea festivaliera veneziana. La drammatica pellicola, tratta dal romanzo omonimo di Valeria Parrella, affronta il delicato tema della maternità, maternità sofferta in quanto prematura e "illeggittima" - ebbene si, ancora oggi in Italia vengono definiti così i figli non riconosciuti dal padre. Lo spazio bianco è il limbo in cui Maria attende la seconda nascita di sua figlia, venuta alla luce dopo soli sei mesi di gestazione e rinchiusa in un'incubatrice in attesa di capire se riuscirà a sopravvivere o no. Lo spazio bianco è anche la vita di Maria prima della nascita di Irene, un eterno presente condiviso con se stessa e costellato di impegni quotidiani, dal lavoro di insegnante alla passione per il cinema pomeridiano, da qualche fugace relazione sentimentale alla scelta di trasferirsi a Napoli. A differenza di molte altre pellicole ambientate nel capoluogo campano, la Napoli fotografata dalla Comencini è una città livida e astratta, distante e silenziosa. Privata dei luoghi comuni che la caratterizzano e della sua identità più solare e sanguigna, Napoli diviene testimone distaccata degli eventi occorsi a Maria. Solo pochi tocchi richiamano il mondo della Napoli criminale nota al mondo: la scorta che non abbandona mai il magistrato che abita nel pianerottolo di Maria, i rapidi accenni all'usura, tratti che evocano un universo completamente avulso dalla realtà che scorre davanti ai nostri occhi in quanto il vero focus del film è una vicenda intima e personale, tanto privata quanto una maternità può essere.

Questa atmosfera rarefatta e sognante, questa fotografia grigio perla che domina l'intera pellicola ben rappresenta il limbo in cui galleggia la protagonista, sospesa nell'attesa della vita o della morte. A dar volto alla sofferente Maria è Margherita Buy che, con la sopraggiunta maturità, sembra aver finalmente abbandonato il ruolo da sempre impostole di donna sull'orlo di una crisi di nervi per approdare a personaggi più complessi e sfaccettati. La Buy si carica sulle spalle il peso dell'intera pellicola fornendo un'interpretazione convincente e misurata, aiutata anche da una sceneggiatura efficace che non indugia più del dovuto sui risvolti melodrammatici della vicenda. La sua Maria è una donna volitiva che si accosta a un universo completamente nuovo, quello della maternità, dimensione che, nonostante le idee circolanti nella nostra Italia cattolica e paternalistica, non è così istintiva e scontata per tutte le donne. La maternità di Maria è qualcosa di non voluto o cercato, qualcosa che accade per caso in un momento della vita in cui la solitudine e la ricerca dell'amore sembrano avere la meglio sull'indipendenza della solitaria protagonista. In questo universo privo di riferimenti ideologici o religiosi espliciti, dove parlare di retorica protofemminista è ormai anacronistico, la sobrietà e il pudore con cui Francesca Comencini affronta la rappresentazione del dolore ci fa apprezzare la sua pellicola confutando l'etichetta già affibbiatale di 'film per sole donne'.

Se il tema della maternità a rischio tocca più da vicino l'universo femminile, lo stile minimalista e l'energia impressa nella rappresentazione del personaggio principale dimostrano la volontà del film di rivolgersi a un pubblico ben più variegato e la misura che caratterizza il lavoro fa passare in secondo piano le sbavature nella confezione e qualche scena fuori misura (il balletto onirico-musicoterapico delle madri nella sala della terapia intensiva neonatale in primis). Da segnalare infine l'ottima colonna sonora che mescola classici degli anni '80, come la travolgente Call Me, a pezzi più melodici e di commento. Anche il contrappunto suono/immagine, punteggiato da contrasti, tradisce la volontà della regista di osare qualcosa in più stilisticamente, avventurandosi in un territorio rischioso perché poco praticato dal cinema italiano contemporaneo, ma la prudenza la spinge a limitarsi alla misura anche in questo aspetto che contribuisce alla piacevolezza del risultato finale.

Movieplayer.it

3.0/5