Recensione Between Two Worlds (2009)

L'enigmatico film del cingalese Jayasundara risulta certamente ostico nella sua lettura, ma il lirismo delle immagini e la loro produzione di senso hanno una potenza tale da superare comprensibili difficoltà di interpretazione.

Nulla è inverosimile

Un uomo cade dal cielo, finendo in mare aperto: arriva ad esplorare un luogo incastrato tra due mondi, una terra devastata da violenti scontri, e si ritrova intrappolato in un limbo tra realtà e mito nel quale si confondono passato, presente e futuro. Di fronte a una pellicola 'magica' come Between Two Worlds la prima reazione di uno spettatore occidentale dovrebbe essere innanzitutto stupore, con un retrogusto amaro per l'orrore che passa dallo schermo. L'enigmatico film del cingalese Vimukthi Jayasundara risulta certamente ostico nella sua lettura, disseminato com'è di simboli, miti e sotterranei riferimenti alla storia e alla situazione socio-politica dello Sri Lanka, ma il lirismo delle immagini e la loro produzione di senso hanno una potenza tale da superare comprensibili difficoltà di interpretazione. E' evidente però che quella di Jayasundara sia un'opera di lacerazioni, le stesse che contraddistinguono un paese segnato da un'eterna guerra civile, in cui esercito e ribelli si affrontano da vent'anni mietendo vittime nel corpo e nell'anima.

Rifiutando ogni regola classica di narrazione, il regista si concentra sull'impatto visivo della sua pellicola e sul fondamentale apporto delle musiche e dei suoni alle atmosfere: il film apre quindi spalancando lo sguardo, insinuandosi lentamente nella nostra coscienza, attraverso metafore innestate in paesaggi dal fascino inquietante, per scuoterci infine con una violenza mescolata a poesia che squarcia il nostro animo. E' un film che rapisce, che incatena a sé con la sua progressione lenta e disorientante, costruito com'è su tempi dilatati e slanci visionari che mantengono gli eventi in una irrealtà metaforica che turba e seduce. Costruita come opera "nel mezzo", Between Two Worlds ci restituisce una geografia molto precisa della terra che racconta: la città appare preda di un caos che nel suo scenario apocalittico testimonia tra l'altro una significativa carneficina di televisori (la comunicazione interrotta), mentre la natura è luogo selvaggio che non fornisce rifugio.

Tutto è morte ed avvoltoi tra l'erba: carcasse di animali divorate da altri animali, stupri, torri delle comunicazioni che bruciano, acque avvelenate. Il gusto pittorico delle inquadrature rivela Jayasundara come vero e proprio artista dell'immagine: la camera fissa e i lenti movimenti di macchina concedono tutto il tempo necessario per andare ad assorbire i misteri dietro ogni fotogramma. Non è facile comprendere tutto, i segni sono sempre avvolti da quella stessa nebbia che nel film si mangia la terra, ma l'occasione di far muovere per una volta il pensiero, guidato dalle emozioni che ci provoca dentro quel che avviene sullo schermo, non va sprecata. Illuminante per comprendere la soluzione che il film si augura alla drammatica situazione in Sri Lanka è la sequenza più efficace della pellicola: gli uomini che cooperano all'unisono per svuotare lo stagno dall'acqua avvelenata, in una coreografia di grande effetto. Nell'attesa che qualcosa cambi, al vagabondo non resta altro che accucciolarsi nel tronco di un albero. Come dice il vecchio saggio nel film nulla è inverosimile. Non lasciatevi spaventare da ciò che non appare subito chiaro, l'immagine parla e decifrarla e lasciarsi travolgere da essa è solo una delle sfide che propone la macchina cinema.