Recensione Departures (2008)

Departures colpisce per la sua capacità di parlare una lingua universale, nonostante la particolarità del soggetto trattato e la sua natura locale: evitando sapientemente un tono facilmente ricattatorio.

Emozioni universali

E' stato il film che, a sorpresa, si è aggiudicato (prima opera giapponese nella storia) la statuetta per il miglior film straniero agli ultimi Academy Awards, prevalendo su concorrenti più gettonati come l'israeliano Valzer con Bashir. E' stato l'evento di maggior richiamo del Far East Film Festival del 2009, che lo ha presentato in anteprima europea. C'era quindi molta curiosità intorno a questo Departures, opera che affronta il tema della morte da un punto di vista insolito: quello di un nokanshi (in giapponese "maestro di deposizione nella bara"), la figura professionale che, in Giappone, è incaricata di preparare il defunto per l'ultimo viaggio, eseguendo un complesso ed elaborato rituale. Così, il film tratta un tema generalmente "rimosso" dal cinema, più sentito in Giappone ma comunque non semplice da affrontare: specie se, come in questo caso, si vuole toccare il tema della morte per parlare soprattutto di vita, di sogni e di riconciliazione con il proprio passato.

Il film è molto giapponese per i motivi di partenza, particolarmente sentiti in un contesto sociale in cui il contrasto tra tradizione e modernità è più che mai presente: il ritorno al paesino natale, la vita di provincia contrapposta alla caoticità della metropoli, l'importanza della riscoperta delle proprie radici. Il tono usato nella narrazione è tuttavia molto classico, immediatamente coinvolgente anche per il pubblico occidentale: nonostante il tema di base, e nonostante un soggetto che ha senso solo all'interno della cultura in cui è nato, il modo usato per raccontarlo è assolutamente universale, e di sicura presa su qualsiasi pubblico. E' probabilmente proprio quest'universalità, e insieme questa facilità di rapportarsi con lo spettatore a prescindere dalla sua appartenenza, ad aver convinto i giurati dell'Academy a tributare al film il prestigioso riconoscimento.

C'è lirismo, in Departures, ma non c'è mai autocompiacimento. La fortissima carica emotiva della vicenda è gestita in modo sapiente dalla sceneggiatura, che alterna momenti di umorismo tipicamente locale ad altri in cui la problematicità dei temi viene fuori in modo più netto. Il tutto mantenendo un rigore assolutamente apprezzabile, puntando su una commozione che non cerca il ricatto, che evita (quasi) sempre di calcare la mano sulla lacrima facile; se si eccettua forse la parte finale in cui il tono sobrio vacilla un po' sul versante melò, senza tuttavia disturbare più di tanto. Ed è proprio questa sincerità di base, questa capacità di coinvolgere in modo immediato ma non banalmente ricattatorio, a decretare principalmente la riuscita del film: una capacità non comune nel cinema moderno, sicuramente da ascrivere alla regia di Takita Yojiro, cineasta molto prolifico in patria (nel frattempo ha già girato un altro film, la commedia Sanpei The Fisher Boy). Un'onestà di intenti che "fa" un film in grado di emozionare, divertire e parlare un linguaggio universale: il cinema, arte autenticamente popolare, è anche e soprattutto questo.

Movieplayer.it

4.0/5