Recensione Il bambino con il pigiama a righe (2008)

La tragedia dell'Olocausto raccontata attraverso l'amicizia di due bambini, uno tedesco e uno ebreo, con uno stile rigoroso, che non rinuncia a una rappresentazione realistica dell'orrore nazista.

I bambini ci guardano, con orrore

Come affrontare l'incommensurabile tragedia e l'infinita disumanità dell'Olocausto? In che modo confrontarsi con un evento storico che ci mette direttamente a contatto con i recessi più oscuri dell'essere umano? Come bilanciare l'urgenza di testimoniare la verità con il pudore e il rispetto nei confronti di un dolore assoluto e, in definitiva, irrappresentabile? Qualunque racconto di finzione (sia esso scritto, oppure filmato), che decida anche solo di lambire marginalmente la questione dell'Olocausto, dovrà fare i conti con questi e mille altri interrogativi di natura morale. Nell'ultima decina d'anni, a partire da fenomeni come Schindler's List e La vita è bella, le narrazioni dedicate allo sterminio ebraico si sono moltiplicate, ritornando a fare i conti con quella che è forse la più grande lacerazione nella coscienza collettiva contemporanea. Ma, proprio sulla scorta del film di Benigni, e di successivi epigoni come Train de vie - Un treno per vivere, è stata inaugurata un'inedita via per la rappresentazione del genocidio. Questi film denunciano, in qualche modo, l'impossibilità di fronteggiare in maniera diretta l'orrore, e la necessità di rievocare il trauma collettivo attraverso prospettive tangenziali, oblique, liminari, che mitighino la tragedia. Forse, proprio per questo, uno dei punti di vista da sempre privilegiati per inquadrare la bestialità nazista è senza dubbio lo sguardo infantile. A partire dal Neorealismo (Germania anno zero) e dal Diario di Anne Frank, su su fino a opere come Jona che visse nella balena, il candore e l'innocenza dei bambini è il solo in grado di contrapporsi all'oscurità senza fine di un mondo adulto degenerato.

Il bambino con il pigiama a righe, adattamento del romanzo omonimo del giovane scrittore irlandese John Boyne, si inserisce pienamente in questo filone "infantile", senza tuttavia rinunciare a una rappresentazione lucida e realistica dell'orrore, lontana da qualunque edulcorazione o trasfigurazione fantastica sullo stile de La vita è bella. Al centro di questa storia c'è, infatti, l'incredibile amicizia tra due bambini: Bruno e Shmuel, l'uno figlio di un gerarca nazista promosso alla direzione di un campo di concentramento, e l'altro un indifeso ragazzino ebreo, internato assieme al padre proprio in quel campo. Bruno, bambino fantasioso e vivace, che adora gli aeroplani e le storie d'avventure, si trasferisce, assieme a tutta la famiglia, in una spettrale e solitaria casa nei pressi del campo di sterminio sotto la supervisione del padre. Mentre la sorella, di qualche anno più grande, si fa plasmare dall'ideologia nazionalsocialista propugnata dal padre e da un severo istitutore, Bruno riesce a fronteggiare il male, ergendo a schermo la propria innocenza e fantasia. E proprio la sua sete d'avventure, contrapposta ai freddi e razionalisti volumi di storia impostigli dal maestro, lo spingono a esplorare la campagna circostante l'abitazione, fino ad imbattersi nel campo di concentramento. Attraverso il filo spinato, Bruno vede un altro bambino, Shmuel, affamato, affaticato e vestito con una divisa a righe, con cui fa subito amicizia. L'innocenza di Bruno non gli consente immaginare neanche lontanamente la malvagità degli adulti. Si costruisce così una propria spiegazione, del tutto infantile e ingenua, ma di certo meno folle dell'abominio concepito dai nazisti: il campo non è altro che una fattoria, le divise a righe sono semplicemente dei pigiami, e i numeri di matricola con cui sono contrassegnati gli internati fanno solo parte di un gioco. Ma sarà Shmuel ad aprire pian piano gli occhi di Bruno, fino a fargli mettere in dubbio anche le azioni del padre, nei riguardi del quale aveva sempre riposto una completa fiducia. Purtroppo, entrambi i ragazzi saranno letteralmente travolti dall'orribile verità in cui hanno avuto la sfortuna di imbattersi.
Al suo esordio alla regia, lo sceneggiatore britannico Mark Herman (suo è lo script di Grazie, signora Thatcher) si approccia alla materia con uno stile rigoroso e distaccato, privilegiando una rappresentazione realistica e focalizzandosi soprattutto sul percorso di progressiva consapevolezza e conoscenza del male affrontato da Bruno e, tramite lui, anche dal resto della sua famiglia. Un cammino graduale che viene reso anche attraverso elementi spaziali e scenografici. La vuota casa di Bruno sembra, almeno all'inizio, una fortezza in grado di proteggere e di isolare i familiari dall'orrore del mondo circostante. Ma, sin da subito, si dimostra come sia impossibile arginare l'invasione della realtà esterna. Il ragazzo, infatti, entra in contatto con un vecchio prigioniero del campo di concentramento, Pavel, utilizzato dalla famiglia come sguattero: presenza fantasmatica, discreta, eppure prepotentemente incisiva e "fragorosa". Interessante anche il tentativo di rappresentare la disperata e vitalistica voglia di fuga di Bruno con vari espedienti: il suo amore per il volo e per l'altalena, la passione per le avventure fantastiche. Inoltre, il rapporto del ragazzo col padre, caratterizzato quasi fino alla fine da totale fiducia e obbedienza, è un'efficace metafora della relazione esistete tra tutto il popolo tedesco e il suo "padre", il Führer, nei confronti del quale la nazione germanica nutriva altrettanta cieca fedeltà. Ulteriore pregio de Il bambino con il pigiama a righe è quello di mostrare nel suo epilogo, senza alcun tipo di concessione, come la conoscenza del male debba necessariamente passare attraverso l'esperienza del dolore più estremo. Solo così, infatti, è possibile immedesimarsi nella sofferenza degli altri. Proprio come fa Bruno, che acquisisce la consapevolezza solo dopo aver attraversato la fatidica soglia di filo spinato che lo separa da un mondo "altro" e infernale.