Recensione Stella (2008)

Il difficile confronto con la scuola, le scoperte dell'infanzia e l'occhio privilegiato sul mondo adulto, l'illuminazione della cultura sono resi con grande garbo e sensibilità e seducono anche grazie al fascino di un'atmosfera anni Settanta qui ovattata in una dimensione quasi onirica.

Imparare a crescere

'A casa mi dimentico della scuola. Domani si vedrà.' Così Stella spiega la propria indifferenza per un universo col quale non riesce a rapportarsi, quello dei suoi coetanei e dell'educazione imposta spesso con metodi che non favoriscono l'appassionarsi a ciò che si si dovrebbe apprendere. La sua tana è invece un bar gestito dai due genitori, che si ignorano con la stessa svogliatezza con la quale la figlia segue le lezioni, dove si muovono bizzarre figure della classe operaia che allargano così la famiglia della giovane protagonista. La regista Sylvie Verheyde ricorda il suo passato di pessima alunna e pennella con grazia un'opera che è fondamentalmente rievocazione di scoperte, atmosfere, amicizie e disillusioni. I differenti personaggi che circondano la Stella del titolo propongono una policroma umanità che fa da coro al percorso della bimba per uscire dalla solitudine e aprirsi al mondo.

Diversa dai ricchi coetani che popolano la sua classe, folletto indipendente nel bar-casa che la protegge dal mondo esterno, Stella trova uno spiraglio di complicità di una compagna di scuola che si avvicina a lei senza presunzione. Poi il tempo le farà scoprire, accanto alle canzoni pop che tanto ama, la magia della letteratura che la eleverà al di sopra della mediocrità, aprendole gli occhi sull'importanza della scuola: un'opportunità da saper cogliere. Per una volta la voce off, di cui pure si fa largo uso, non stucca, anche grazie all'umorismo corrosivo della protagonista, interpretata al meglio da Léora Barbara, mai sopra le righe pur nella sua stravaganza di 'undicenne-contro'. La regista le cuce addosso il più classico film a misura di bambino, scavando nei propri ricordi che danno così all'opera un amorevole carattere autobiografico.

Costretta dall'ambiente rigoroso della scuola a limitare al minimo i movimenti di macchina, la libertà totale del café trapela anche da una regia più vivace che segue con grande partecipazione i personaggi che lo abitano. Tra questi c'è il compianto Guillaume Depardieu che nel suo ultimo ruolo interpreta un principe azzurro gentile e complice del quale non può che innamorarsi la piccola protagonista. Il difficile confronto con la scuola, le scoperte dell'infanzia e l'occhio privilegiato sul mondo adulto, l'illuminazione della cultura sono resi con grande garbo e sensibilità e seducono anche grazie al fascino di un'atmosfera anni Settanta qui ovattata in una dimensione quasi onirica. Delizioso nei primi palpiti che scuotono i sentimenti della protagonista, il film si addormenta però quando si limita a fotografare attimi piuttosto che a raccontare. La parentesi pedofila verso il finale è inoltre fuori luogo: che nel mondo ci sia del marcio una bambina così intelligente avrebbe potuto capirlo anche senza bisogno di lasciarla sfiorare dalla volgarità del lupo.