Recensione Prison Escape (2008)

Presentato Fuori Concorso nella kermesse torinese, ma già un anno prima al Sundance Film Festival di Robert Redford, l'opera prima di Wyatt è un film squisitamente di genere, una co-produzione anglo-irlandese concepita per le nuove generazioni di appassionati che accontenta però anche gli amanti dei grandi classici.

Come ti reinvento il prison-movie

Al Torino Film Festival 2008 arriva l'action. A reinventare un genere ormai pesantemente inflazionato come quello carcerario è Rupert Wyatt, un giovane regista di origini francesi (ma dal nome inconfutabilmente britannico) classe 1972 che nel 2004 dirige un cortometraggio intitolato Get the Picture, girato insieme al grandeBrian Cox, concepito come la sequenza d'apertura di un lungometraggio d'azione ambientato in una zona di guerra. Poi la proposta di Cox di farne un film che avesse lui stesso come protagonista e che raccontasse la storia di un uomo forte e sensibile, un personaggio di grande spessore umano in cerca di redenzione. Fu in quel momento che i due pensarono al filone carcerario, da sempre la loro grande passione. Nasce così The Escapist, moderno thriller psicologico che sfrutta lo spunto narrativo e l'onda del successo dell'avvincente serie tv di FOX Prison Break per portare una ventata di novità in un genere affascinante che nessuno prima d'ora era riuscito a svecchiare.

Protagonista di questa storia uno straordinario Brian Cox nei panni di Frank Perry, un anziano ergastolano rinchiuso in un'anonima prigione londinese che, spinto dalla notizia che la sua unica figlia tossicodipendente potrebbe morire da un momento all'altro, progetta un piano di fuga insieme con un gruppo ristretto di suoi compagni. Nel gruppo c'è l'introverso e vendicativo Lenny (un irriconoscibile Joseph Fiennes), il giovane e indifeso Lacey (Dominic Cooper), l'irlandese orgoglioso Brodie (Liam Cunningham) l'unico vero amico di Frank e il discreto e tranquillo Viv (Seu Jorge), spacciatore nell'anima ma il più tranquillo del gruppo. La loro non è solo una fuga verso la libertà, ma anche e soprattutto una fuga da loro stessi e dalla loro intrinseca miserabile finitezza di esseri umani.

Presentato Fuori Concorso nella kermesse torinese, ma già un anno prima al Sundance Film Festival di Robert Redford, l'opera prima di Wyatt è un film squisitamente di genere, una coproduzione anglo-irlandese concepita per le nuove generazioni di appassionati che accontenta però anche gli amanti dei grandi classici. Il look è moderno, dai colori insolitamente caldi (stile Fuga di Mezzanotte per capirci), il luogo ricreato dagli scenografi è opprimente, quasi un'oasi orrorifica in cui il tempo non scorre, e mette in risalto l'assenza di punti di riferimento, di movimento, la totale mancanza di spazi vitali. Tutti aspetti accentuati anche dall'uso statico della macchina da presa nei momenti più riflessivi che si pone in netto contrasto con il ritmo sincopato delle sequenze di fuga girate con camera a mano.

Come nella serie tv sopra citata la narrazione è costruita sulla tecnica dei flashback e flashforward, ma se in quel caso l'abuso di tale meccanismo era diretto per lo più alla costruzione della tensione, ad evidenziare le scene d'azione e ad aumentare il ritmo, qui assolve a tutt'altro compito. E' solo andando avanti e indietro nel tempo che lo spettatore riesce ad entrare in contatto con la psiche turbata di Frank, con i suoi ricordi, con la sua voglia di redenzione, con il suo senso di impotenza, con l'altro lato del suo carattere, quello quasi femmineo che smorza la durezza e il cinismo con una grande sensibilità ed un grande senso di protezione verso chi è più giovane di lui ed ha ancora la possibilità di cambiare la sua vita. The Escapist esula dallo stile americaneggiante dei film hollywoodiani, non sorvola sui dettagli né rinuncia ai ritmi sincopati. Il lavoro più importante è assolto dal montaggio, che tiene incollati alla poltrona dal primo all'ultimo minuto, che suggerisce soluzioni ma non le esplicita, che gioca col pubblico prendendolo alla sprovvista disseminando gli indizi lungo il racconto con meticolosa dovizia per mantenere alta l'attenzione nello spettatore. I clichè di genere ci sono è innegabile, ma lo spirito con cui si assiste a questo The Escapist è qualcosa di meravigliosamente nuovo, perché la storia ti entra dentro, nelle viscere, e ciò accade assai di rado quando si tratta di certi film. E' verso il finale, quando alcuni colpi di scena ben congegnati costringono ad una rilettura in chiave intimista ed esistenzialista dell'intera vicenda, che ci si rende conto del valore di quanto si è visto fino a quel momento.

Ottimo il cast a supporto di quello che è l'attore non protagonista per eccellenza: finalmente un ruolo da primadonna anche per Brian Cox, qualcosa di diverso da tutti quelli che negli ultimi anni gli sono stati offerti. L'attore scozzese che per primo ha dato il volto e il corpo al feroce Hannibal Lecter offre una prova magistrale, energica e toccante sì, ma con quel tocco di sana ironia mista ad inquietudine che solo i grandi attori sanno esprimere, anche con una sola smorfia. La sua straordinaria faccia, che molto ricorda quella del grande Marlon Brando, è il ritratto dell'umana sofferenza, di quel mal di vivere meramente terreno che addolora e ammutolisce, che buca lo schermo colpendo nel centro del bersaglio.
La libertà è vita, è speranza, ma in fondo è solo uno stato mentale.

Movieplayer.it

5.0/5