Recensione L'ultimo Pulcinella (2008)

Di evidente derivazione teatrale, il film è un lamento sommesso per quell'arte che la gente di Napoli sembra aver dimenticato e che è costretta ad emigrare all'estero per potersi esprimere.

Una pallida maschera in trasferta

A guardare l'inizio de L'ultimo Pulcinella, film di chiusura della terza edizione del Festival del Film di Roma, un brivido di terrore ci corre lungo la schiena. Il timore di stare per assistere a una sceneggiata in stile Mario Merola è forte, anche perché il regista Maurizio Scaparro comincia il suo film con una classica cartolina da Napoli: il Golfo, i palazzi che si accavallano l'uno sull'altro e sullo sfondo l'immancabile Vesuvio addormentato. Poi arriva la famiglia protagonista della storia, un Massimo Ranieri nei panni di Pulcinella che è la vergogna del figlio (che gli da del ridicolo per il suo essere antico) e una moglie che l'ha ormai lasciato da tempo. Parte una canzone, La palumella zompa e vola e il melodramma sembra pronto a spalmarsi sullo schermo. Gli elementi ci sono insomma tutti, la minaccia prende sempre più corpo. D'improvviso però il film si sposta a Parigi. Ranieri va a cercare nella periferia della capitale francese il figlio che intanto è scappato via e trova come d'incanto un teatro che sa accogliere la sua maschera.

Quello di Scaparro è un'opera fondamentalmente lagnosa, col buon gusto di non riempirsi di lacrime. Oltre le seccature familiari, con i vari conflitti e riavvicinamenti telefonati, il film si lamenta di un'arte dalle radici che affondano in un lontano passato messa da parte nella propria patria, dove la gente ha appeso al chiodo la maschera di Pulcinella, ormai simbolo di un passato avviato a scivolare nel dimenticatoio. Posta così la questione è pure seria e feconda di spunti di riflessione, ma portata sullo schermo con piglio così debole si sgretola rapidamente nella pura noia. Di evidente derivazione teatrale (il film è tratto da uno spettacolo teatrale diretto dallo stesso Scaparro), sia nella messa in scena che nello sviluppo narrativo che ancora nelle interpretazioni, L'ultimo Pulcinella si spaccia per espressione di un malessere che serpeggia nella realtà partenopea, dalla quale si tenta la fuga per realizzarsi altrove. Perché oltre a camorra e mondezza, Napoli è anche ignoranza e oblio. Nella pratica però il pallore di un soggetto che s'allarga e mette a confronto le periferie d'Europa, non riesce a restituire il sentimento reale di un popolo, come quello napoletano, che in verità è sempre più sfaccettato e sveglio di quanto vogliono farci credere.

Da dimenticare la sottotrama dei disordini nelle banlieue parigine che non porta da nessuna parte, se non a una fiacca testimonianza del fatto che anche nelle periferie dei vicini non mancano i problemi. Per Scaparro recuperare origini e rapporti significa andare altrove, in posti dove ancora sopravvive l'apertura verso l'arte e verso l'altro, dove le diverse etnie possono mescolarsi in modo disordinato. Le radici nel film stanno dentro una maschera, che indossata in quell'altrove però sa troppo di folklore inconsistente, che funge solo da occasione per l'incontro tra diversità elette. Insomma, cumuli di banalità scaricati sul sacro territorio di un palco teatrale. Massimo Ranieri si fa convincente solo quando veste i panni di Pulcinella, quando cioè l'uomo lascia il posto all'artista e la sua voce riscalda le immagini. Giù dal palco, infatti, il suo ruolo di padre non riesce mai a sfiorare le corde emozionali dello spettatore, anche per la sterilità di uno script sbagliato che risolve i conflitti in un abbraccio riunificatore ottenuto senza troppo faticare. Sfumata l'opportunità di un discorso più graffiante sulla propria terra e sui limiti che l'era attuale pone all'arte, L'ultimo Pulcinella offre una speranza che non ci convince affatto, che non ha forza propulsiva e si esaurisce nel matrimonio di convenienza tra cinema e teatro. Quando l'artista si toglierà la maschera quanto rimarrà del suo canto nel cuore di chi l'ha ascoltato?